una delegazione di solidarietà con la popolazione stanziata nell’Iraq del nord, vittima del genocidio perpetrato dall’Isis nel 2014 e ora minacciata dalle pressioni del governo centrale. Un viaggio per raccontare lo sforzo di emancipazione di comunità oppresse che si ispirano agli ideali del confederalismo democratico

Ci sono luoghi della terra in cui l’intreccio fra autodeterminazione, indipendenza e dominio politico si fa più esplicito e violento che altrove. Uno di questi è Sinjar, una regione montuosa che svetta sulla Piana di Ninive alle estremità nord-occidentali dell’Iraq, teatro di un genocidio che verrebbe da definire “dimenticato”, non fosse che è praticamente ancora in corso nel silenzio assordante della comunità internazionale.

Il popolo ezida, insediato nella regione incastonata fra Rojava (Siria del nord), Kurdistan iracheno (governatorato di Erbil), Iraq (Mosul) e lembo meridionale della Turchia, è stato infatti decimato fra il 2014 e il 2015 per mano dei miliziani dello Stato Islamico, che hanno cinto d’assedio la zona col preciso intento di sterminare uomini, donne, bambini e bambine da loro considerati “infedeli” (l’ ezidismo è un’antica religione di ascendenza zoroastriana che, secondo i dettami più rigidi, non appartiene alle cosiddette “religioni del Libro”, Cristianesimo, Islam ed Ebraismo).

Abbandonata dai peshmerga curdi affiliati al Governo Regionale (Krg) che hanno lasciato l’area spianando la strada ai fondamentalisti, la popolazione è calata nel giro di due anni da 700mila-800mila persone a sole 300mila.

Stando alle stime delle Nazioni Unite, almeno 5mila ezidi sono stati uccisi, chi “giustiziato” direttamente dall’Isis, chi invece morto di fame e stenti nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni. Migliaia di giovani, spesso pre-adolescenti, sono stati catturati e addestrati per attacchi suicidi, se maschi, oppure ridotte a schiave sessuali, se femmine. Oltre 500mila le persone sfollate, che hanno trovato rifugio soprattutto in Rojava, nel Kurdistan Iracheno o tentato la rotta verso l’Europa, la maggior parte delle quali ancora in attesa di ricollocamento.

Foto di Chris De Bruyn da Flickr

È solo grazie all’impegno di Ypg e Ypj, unità di autodifesa dell’autonomia curda in Siria del Nord, e dei combattenti del Pkk, organizzazione marxista-leninista per la liberazione del Kurdistan costituita da Abdullah Öcalan, che la violenza fondamentalista a Sinjar è stata arginata, mentre le forze statunitensi si limitavano a interventi aerei e la Turchia di Erdoğan chiudeva e presidiava le proprie frontiere “in faccia” a ezidi ed ezide.

Dove non riescono eserciti regolari e autorità centrali, arriva allora la resistenza popolare. In seno a questi eventi, infatti, a Sinjar si è formato e rafforzato un sistema di indipendenza e autonomia ispirato agli ideali del “confederalismo democratico”: benché il 90 per cento degli abitanti debba ancora far ritorno nell’area, sono attivi il Consiglio autonomo democratico (Meclîsa Xweseriya Demokratîk a Şengalê), le unità di protezione Ybş (Yekîneyên Berxwedana Şengalê, già presenti dal 2007‎) e le milizie di autodifesa Ezidxan Asayish, che si sono costituite in risposta ai massacri dell’Isis e operano a stretto contatto con i e le combattenti del Pkk.

Dopo essere stato “tradito” dalle potenze che lo circondano, il popolo ezida cerca dunque in sé – radicandosi ancor di più nella propria millenaria cultura e nella propria peculiare identità – un principio di autodeterminazione e convivenza pacifica, analogamente a quanto stanno facendo curdi e curde nella vicina Siria. Non stupisce che un tale processo venga osteggiato.

Nonostante a marzo il governo iracheno, capeggiato dal primo ministro Al-Kadhimi, abbia approvato una legge che prevede compensazioni e tutele per le vittime del genocidio del 2014-2015, pochi mesi prima veniva siglato il cosiddetto “Accordo di Sinjar” che chiede il ritiro delle Ezidxan Asayish dalle loro postazioni affinché le autorità centrali possano riprendere il controllo della zona. Nessun rappresentante ezida è stato coinvolto nella discussione (che si è invece svolta il 9 ottobre 2020 fra governo iracheno e autonomia regionale del Kurdistan-Krg, con il beneplacito di Usa e Nazioni Unite), mentre a Sinjar e villaggi limitrofi scoppiavano proteste per contestare la decisione. Il primo aprile di quest’anno è scaduto anche l’ultimatum del governo.

Si teme una nuova spirale di violenza. DINAMOpress prende parte da oggi a una delegazione di attiviste e attivisti, giornaliste e giornalisti e rappresentanti politici organizzata da Uiki-Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia diretta a Sinjar per una settimana a documentare il rischio di un altro genocidio perpetrato sulla pelle del popolo ezida.

La regione (situata nel Governatorato di Ninive) rappresenta da tempo un “territorio conteso”, attaccato da più parti e per numerose ragioni. In primo luogo, come si è detto, i sentimenti discriminatori ed escludenti nei confronti di ezidi ed ezide, minoranza già emarginata all’epoca dell’impero ottomano per la sua specificità e coesione culturale e religiosa (vige presso la popolazione un forte tabù verso i matrimoni misti), che è andata sommandosi a un più generico sentimento anti-curdo (etnia a cui appartiene la popolazione di Sinjar, per quanto esistano anche arabofoni).

Foto di Levi Clancy da WikiCommons

In secondo luogo, il “rebus irrisolto” della sovranità irachena, in cui si mescolano l’attitudine autoritaria del governo centrale, sfidata negli ultimi due anni da imponenti proteste di piazza, e i conflitti interni alle autonomie regionali curde del nord che si sono sviluppate durante gli anni ‘90, suddivise in diverse fazioni che rispondo spesso a dinamiche antecedenti di stampo tribale e familiare, in una frammentazione ulteriormente complicata dal “passaggio” dello Stato Islamico.

In più, la questione energetica: le zone di Mosul e Ninive sono ricche di giacimenti e pozzi petroliferi, di volta in volta utilizzate dai gruppi che ne hanno preso possesso come mezzo di consolidamento del proprio dominio e di guadagno economico, e chiaramente oggetto di interesse per tutte le potenze regionali.

Infine, ma non “da ultimo”, l’interposizione costante e impietosa della Turchia di Erdoğan, da tempo avviluppata in un crescendo di nazionalismo e atteggiamenti dittatoriali, in una situazione di scontro aperto con il Pkk tanto da spingersi a bombardare a gennaio di quest’anno proprio il territorio di Sinjar in funzione anti-curda.

La solidarietà – in un simile contesto – ci sembra allora essere un presupposto minimo dello sguardo e della conoscenza, ancor prima che una prassi politica. Il popolo ezida, che vari “poteri” provano a spingere con violenza ai margini della storia, occupa invece – ai nostri occhi e a quelli di chi crede negli ideali di comunità più eque e democratiche – il “centro” di interrogativi quantomai urgenti: emancipazione, giustizia sociale, autodeterminazione popolare, inclusività culturale.

Foto da Flickr

Tutti fattori che nel composito mosaico dei territori curdi, se da una parte vengono calpestati da secoli e hanno subito con la recente recrudescenza del fondamentalismo islamico un massimo grado di oppressione, dall’altra trovano in esperienze come quelle delle autonomie del Rojava e del Sinjar una rielaborazione fino a non troppo tempo fa impensata e travolgente.

«Siamo tutti Asayish», urlano dai presidi permanenti che protestano contro l’Accordo di Sinjar. Siamo tutte e tutti a fianco del popolo ezida, diciamo noi di rimando, e proveremo a mettere in pratica questo assunto fin da subito.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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