Un viaggio dentro la comunità ezida, nella regione irachena di Sinjar. Dopo il massacro del 2014 compiuto dai fondamentalisti dell’Isis, si sta provando a costruire una nuova società basata sui principi del confederalismo democratico
Una freccia rossa disegnata sul muro indica la Mecca. È in una stanza buia, sulle pareti di una villetta ormai abbandonata in una strada laterale della città di Tilazer, regione del Sinjar, alle estremità nord-occidentali dell’Iraq. Negli spazi adiacenti, si trovano oggetti per terra, detriti, una sedia ribaltata. Dal soffitto pende un filo che, attorcigliandosi su se stesso, assume quasi l’aspetto di un cappio.
La freccia indica anche, e purtroppo, una serie di indicibili violenze subite dalla popolazione ezida che abita queste zone. Proprio in questa casa, infatti, i fondamentalisti dello Stato Islamico rinchiudevano e torturavano le donne sequestrate, forzandole a “pregare”, durante il genocidio del 2014-2015 in cui le comunità della regione sono state “letteralmente” sterminate (da circa 800mila persone presenti nell’area si è passati a circa 300mila, fra morti, sfollati e rapiti).
Allora, i peshmerga curdi di Barzani (che governa le autonomia regionale del nord Krg) abbandonarono ezidi ed ezide, ritirandosi dalla regione e lasciando “mano libera” ai fondamentalisti dell’Isis.
«Fino all’ultimo assicurano che ci avrebbero difeso», raccontano alcuni dei sopravvissuti al massacro, che ci stanno guidando in questi luoghi. «Ma poi hanno preso per sé le munizioni migliori, di fabbricazione tedesca, fornivano a noi solo armi di bassa qualità. Infine, a poche ore dall’arrivo dei fondamentalisti, se ne sono andati lasciandoci praticamente inermi».
Il risultato di questo “tradimento” è oramai noto: stando ai dati raccolti dalle Nazioni Unite, ci sono stati oltre 5mila decessi (chi direttamente ucciso dall’Isis, chi morto di fame e stenti nel tentativo di fuggire), fra i 4mila e i 10mila sequestrati, circa 500mila profughi, molti dei quali ancora impossibilitati a tornare, quasi tutti appartenenti alle minoranza ezida che, per via del suo credo di ascendenza zoroastriana, veniva considerata dai fondamentalisti una minoranza di “infedeli”.
Tuttavia, non è ancora possibile stabilire cifre in via definitiva: tante le testimonianze ancora da ascoltare, un numero altissimo di bambini e bambine (nell’ordine delle migliaia) di cui si è al momento perso traccia, difficoltà nell’identificare alcuni dei morti.
A distanza di quasi sei anni dal genocidio (sebbene, dopo la liberazione della città principale nella regione, i guerriglieri dell’Isis abbiano mantenuto le proprie postazioni in tanti dei centri circostanti per vario tempo prima di essere scacciati), il territorio di Sinjar è ancora pieno di fosse comuni che – stando a quanto affermano gli stessi abitanti della zona – il governo iracheno si rifiuta di esumare per procedere ai riconoscimenti.
Villaggi come quello di Gerzerik, in cui si trova appunto una di queste fosse comuni, sono completamente spopolati, ridotti a uno spettrale cumulo di macerie “incastonato” nella semi-desertica piana di Ninive. Altre cittadine come quella di Tilezer, in cui lo Stato Islamico è rimasto fino al 2017, alternano una flebile presenza umana a edifici distrutti e “violentati”, in cui la polvere cela a malapena i segni (e il ricordo) del recente massacro.
Come riassumeva a suo tempo il giornalista Simone Zoppellaro ne Il genocidio degli Yezidi (2017), sembra di trovarsi di fronte a «una comunità stremata, allo sbando, senza speranze, che non ha al momento neppure i mezzi necessari e la forza per immaginare un domani, e destinata quindi a rivivere di continuo, anche solo nel buio della memoria, le molte tragedie del suo passato».
Eppure, ci sentiamo ripetere spesso, «i numeri non sono importanti». Una delegazione italiana di attiviste e attivisti, giornalisti e medici si è recata in questi giorni nella regione di Sinjar per portare aiuti e solidarietà alla comunità ezida che, a dispetto delle atrocità subite, sta invece provando a “immaginare un domani”.
Dopo aver combattuto e battuto lo Stato Islamico grazie all’aiuto delle truppe di autodifesa del Rojava Ypj e Ypg a dei guerriglieri e delle guerrigliere del Pkk, la popolazione di Sinjar si sta infatti dotando di nuove istituzioni e di un nuovo sistema di governo basato sui principi del confederalismo democratico elaborati da Abdullah Öcalan: sono stati formati il Consiglio Autonomo, l’Assemblea del Popolo nonché delle unità locali di autodifesa che presidiano il territorio.
Arrivando da Mosul verso i territori del Sinjar, si entra nel villaggio di Xanasor attraversando un lungo rettilineo chiamato “viale dei martiri”. Ai lati della strada, file di pali con piccole icone quadrate appese, su cui sono stampati i nomi e i volti di chi ha perso la vita per difendere questa terra: sono i e le şeit, i “martiri” appunto, membri delle forze di autodifesa che hanno contribuito alla cacciata dell’Isis e alla liberazione della comunità ezida.
Il colore rosso dei cartelli contrasta l’azzurro uniforme del cielo, mentre il profilo delle “colonne” in serie si perde verso l’orizzonte. È la celebrazione collettiva della resistenza popolare, su cui si fonda il tentativo di costruire una nuova società ezida.
Qualche metro più in là, facendo capolino in una casa dal giardino ben curato che si trova in mezzo a una via non asfaltata, sembra quasi di entrare nel “retroscena” di una tale celebrazione. «I numeri non sono importanti», ripete ancora chi fa da mediatore ai nostri colloqui, provando a tradurre, più che le parole da una lingua all’altra, la cifra di un dolore a metà fra il pubblico e il privato. Un dolore che, per quanto comune a tutti gli ezidi e a tutte le ezide, non può che appartenere in ultima istanza al singolo e alla sua sfera intima.
«All’arrivo dell’Isis siamo riusciti a scappare nel Kurdistan iracheno, ma mio figlio Bahwer ha voluto tornare indietro per combattere»: Pakia ha due solchi molto pronunciati fra le sopracciglia, una voce calma, e mentre racconta sembra talvolta perdere il filo del ricordo, confondendo la conta dei “vuoti” che lo Stato Islamico ha lasciato nella sua famiglia. «Quando è stato ucciso aveva solo vent’anni. Era il quinto di dieci figli, il più timido ed educato, non avrei mai immaginato potesse diventare un martire».
Ora Pakia fa parte della Taje, il movimento per la libertà delle donne che si è costituito dopo il massacro e che si occupa appunto di sostenere tutte le donne che si trovano in una condizione di difficoltà. Mostra la fotografia di Bahwer dal cellulare, accennando a un sorriso mentre la rivolge verso di noi. «Non so se il fatto che viene considerato un “eroe” aiuti a lenire il mio dolore. Sicuramente mi fa stare bene dare una mano alle altre persone, far parte della Taje ed essere solidale con altre donne. Questa fa del bene a me e agli altri miei figli».
Se la memoria collettiva e il tributo dato dalla comunità ai propri martiri sono aspetti fondamentali della società ezida che sta provando a ricostituirsi dopo il genocidio, forse è poi nel piccolo impegno quotidiano di persone come Pakia che una tale rifondazione trova il suo valore più politico, e più sincero.
Cercare di far fronte al dolore personale alleviando il dolore degli altri significa davvero – soprattutto se lo si vede dal punto di vista delle donne – rendersi finalmente autonome e indipendenti, così come autonomo e indipendente vuole essere il popolo di Sinjar.
C’è solo una cosa che si richiede allo stato iracheno: «Aprire le fosse comuni, prima che la pioggia renda irriconoscibili i nostri morti».
Tutte le immagini di Francesco Brusa