Vista del falco, un po’ in tutti i sensi, per l’Unione Europea che dichiara il blocco dei licenziamenti un enorme sbaglio, limitandosi ad usare un eufemismo di marca strettamente istituzionale: “superfluo“. Un errore, un inciampo della politica troppo sociale e troppo poco piegata al dettame liberista, accondiscendente al tema della pace sociale, del contenimento dell’eccessiva crescita della povertà, delle diseguaglianze e, quindi, dell’insofferenza popolare messa a dura prova dal Covid-19.

Secondo i tecnici di Bruxelles la norma introtto in Italia per arginare l’altrimenti molto prevedibile decurtazione dei posti di lavoro da parte dei così tanto bravi imprenditori dello Stivale, sarebbe un pannicello caldo (e qui se ne può anche convenire, seppure da tutt’altro punto di vista) perché tenderebbe «...a influenzare la composizione, ma non la portata dell’aggiustamento del mercato del lavoro».

Insomma, il governo precedente avrebbe agito senza tenere conto delle esigenze delle imprese, guardando esclusivamente al mantenimento numerico dei posti di lavoro, slegandoli dal quadro complessivo della crisi economica innestata dal coronavirus, creando così i presupposti gravissimi (!) per determinare una sorta di diritto nuovo, di clausola di salvaguardia sociale ed individuale senza esclusione di sorta, estendendo il provvedimento a tutto il mondo del lavoro.

Stiamo parlando del governo Conte bis, quindi di un esecutivo che, rispetto all’attuale, aveva certamente tratti più sociali: non fosse altro per l’esclusione dalla maggioranza di una serie di forze politiche che hanno spostato pesantemente a destra l’asse dell’azione dell’esecutivo e la fisionomia unitaria nazionale del Parlamento che ha cambiato non solo portamento e vestigia ma anzitutto il volto.

Secondo la UE il mantenimento dei posti di lavoro a prescindere da un intervento di tutela dell’equilibrio dei mercati in sede nazionale, quindi di protezione dei capitali e dei profitti, non aiuterebbe la ripresa economica e non favorirebbe altro se non uno status-quo che viene indicato come freno alle nuove occasioni di sviluppo che si presentano.

Per i tenici sia della Commissione europea sia della BCE (ma sarebbe meglio definirli un po’ spregiativamente per quello che sono: tecnocrati, quindi agevolatori di politiche ben mirate a colpire il welfare e il sistema pubblico dei singoli Stati dell’Unione) ad ogni compensazione sociale deve fare da bilanciamento una riforma che consenta agli imprenditori di agire con meno vincoli burocratici, con meno spese proprio nei confronti della forza-lavoro. La tiritera è sempre la stessa: senza incentivi, senza sconti di Stato, a scapito del bilancio pubblico e comune, nessun padrone investe volentieri nuovi capitali per uscire dalla crisi.

Il taglio dei posti di lavoro è sempre il primo punto da cui partire per riconvertire le produzioni, per adeguarle ai fattori di crisi che via via si possono presentare. Ed in un biennio pandemico, crisi per eccellenza, unica e mai vista a memoria di umano attualmente vivente, si vengono a definire tutte le più circostanziate caratteristiche per favorire la ricalibratura degli spazi di mercato da occupare, dei contratti e dei salari, della composizione numerica proprio della forza-lavoro, delle maestranze.

Il blocco dei licenziamenti, anche per un governo liberal-sociale come il Conte bis, era la misura necessaria per evitare un pericoloso impoverimento di milioni di italiani che si sarebbero sommati ai sei milioni già presenti alla voce “povertà strutturale”.

I tavoli di crisi aperti al Ministero dello Sviluppo economico tra imprese e sindacati sono un centinaio e lasciano prevedere un periodo estivo tutt’altro che sereno, tranquillo e prospiciente su un autunno qualcosa di più del solito “caldo” che gli si attribuisce ogni anno nella ripresa delle attività produttive in tutto il Paese. Il rischio di disoccupazione immediata, appena cessarà la protezione (minima) del blocco dei licenziamenti, si manifesterà prepotentemente per quasi 60.000 lavoratori.

Davanti ad un rischio di accrescimento esponenziale della crisi sociale, Confindustria si lamentava con Draghi per le “intese tradite“, per quel prolungamento del blocco – contenuto nel Decreto Sostegni bis – poi scomparso, giustamente rimarcato e stigmatizzato dai sindacati e che, tuttavia, non basta ancora all’Unione Europea come segno di buona volontà da parte del governo del superbanchiere nei confronti della disponibilità di Bruxelles a concedere i prestiti e i fondi persi con il Recovery Fund al nostro Paese.

Il prezzo sociale da pagare si alza sempre di più per essere adeguato agli standard continentali di un asse franco-tedesco che coinvolge ormai tutti quei paesi “frugali” che godono di privilegi economici frutto di una politica disegualitaria nella distribuzione delle risorse: si premiano i più solerti applicatori delle politiche liberiste, laddove le contraddizioni sociali sono storicamente meno marcate, dove non esiste un “nord” ed un “sud“, dove non vi sono zone particolarmente “depresse” sul piano economico; si penalizzano, al contempo, gli Stati che sono strategicamente importanti per lo sviluppo dell’intero Vecchio continente e di cui l’Europa non può fare a meno per numeri, percentuali e cifre nel mercato mondiale e anche per le loro posizioni strategiche nella geopolitica extra-europea.

A ben vedere, oltre all’Italia, soltanto la Grecia e la Spagna hanno stabilito un divieto di licenziamento nel mezzo del cammin del coronavirus, mentre si entrava nella selva oscura dell’emergenza sanitaria globale. Francia e Germania si sono limitati a controlli sulle azioni imprenditoriali, al fine almeno di limitare gli abusi. Ma i contratti cui sono sottoposti centinaia di migliaia di lavoratori sono già di per sé dei veri e propri abusi delle loro vite, delle loro capacità intellettive e materiali. L’asse iberico – italico – ellenico non è casuale: sembra definire un’Europa mediterranea che subisce non solo gli effetti del Covid-19, ma pure quelli delle migrazioni che non possono cessare se a crisi si aggiunge altra crisi.

Se la pandemia ha reso a noi la vita un mezzo inferno, figuriamoci ai migranti che sommano a questa tutto ciò per cui già prima del febbaio 2020 fuggivano da regioni dell’Africa e del Medio Oriente infestate dalla miseria più dilagante.

Adesso si aspetta il 1° luglio 2021, quando il blocco dei licenziamenti sarà scaduto e i padroni avranno mano libera per ridefinire gli assetti in fabbrica, per sforbiciare, tagliare e sfoltire tutta quella forza-lavoro che riterranno eccessiva per bilanciare la concorrenza nella produzione e nella circolazione delle merci. Non basteranno nemmeno le aspettative fin troppo rosee di crescita, elencate dal governatore della Banca d’Italia giorni fa, per evitare che decine di migliaia di lavoratori vengano trasformati in disoccupati dell’era del coronavirus.

Potremmo trovarci davanti ad un vero e proprio balzo della crisi sociale, di un ricorso al licenziamento come metodo strutturale di ridefinizione delle politiche aziendali per il post-Covid; oppure potremmo invece assistere ad un intervento da parte del governo per limitare quelli che saranno valutati come eccessi di zelo da parte di un padronato che, tuttavia, scalpita per avere le mani libere e poter gestire la compressione produttiva, il ridimensionamento dei profitti e la riduzione dei dividendi agli azionisti.

Comunque vada, senza un ricorso alla lotta sociale, sindacale e di classe non vi sarà nessuna vera opposizione alla prepotenza liberista degli imprenditori che, del tutto naturalmente ma anche scientemente (unendo ruolo antisociale a strategia economico-finanziaria), pretenderanno di poter gestire la fase senza troppi vincoli sovrastrutturali, senza doversi costantemente sedere ai tavoli delle trattative: saranno anche disposti a tratteggiare con Draghi un programma di esplusioni “ragionate” dal mondo del lavoro per decine di migliaia di addetti, facendo magari ricorso ad ammortizzatori sociali, a prepensionamenti (pochissimi per la verità) e a delocalizzazioni produttive.

Ma non si fermeranno, perché l’occasione ghiotta di approfittare del post-pandemia si presenta già oggi non come un traguardo cui giungere, ma come un punto di partenza per una lunga stagione di riorganizzazione dei rapporti di classe, tra impresa e lavoro, tra padroni e lavoratori, fin dentro i più reconditi meandri contrattuali.

La pandemia ne avrà una colpa minima, perché sarà presa a pretesto tante, troppe volte per giustificare nuovi sacrifici, nuove decurtazioni di diritti (sebbene ne rimangano davvero pochi) tanto dentro quanto fuori il lavoro propriamente detto. Il resto della colpa sarà nostro se non reagiremo al colpo di coda del capitalismo italiano ed europeo, alle rimostranze di Bruxelles, al considerare un minimo di tutela sociale un privilegio, qualcosa di “superfluo“. Per ricchissimi profittatori e sfruttatori del lavoro altrui, sicuramente.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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