Partiamo senza pregiudizi. Tuttavia è difficile non notare che i referendum sulla giustizia proposti dai Radicali italiani e dalla Lega piacciono per l’appunto al partito di estrema destra neonazionalista e sovranista, oltre che ad un bel parterre di personaggi e forze politiche che hanno sempre imputato alla magistratura di essere in qualche modo eterodiretta dai comunisti (linguaggio da epoca berlusconiana) per colpire la libertà di impresa che ha preteso di governare il Paese direttamente da Palazzo Chigi; oppure di essere pervasa da intenzioni preventive e, quindi, sviluppante giudizi inquinati da partigianerie che con l’uguaglianza nei confronti della legge avrebbero ben poco avuto a che fare.
Che i referendum sulla giustizia siano sperticatamente applauditi da costoro è, francamente, poco rassicurante ed anche molto poco incoraggiante per chi vuole davvero esaminarli senza l’ombra della spada e dello scudo del povero usato e abusato Alberto Da Giussano. Si parte dal principio salviniano secondo cui in Italia i magistrati non sarebbero proprio così uguali davanti alla legge e non pagherebbero i loro debiti con la giustizia così come ogni privato cittadino, azienda o ente pubblico, partito o movimento. Poi c’è chi si dimentica di pagare per un po’ di tempo o distrattamente spende soldi pubblici così… per caso, e viene trattato secondo la legge. Proprio da quei magistrati cattivi che, a suo dire, raramente vengono responsabilizzati per le loro azioni, per i loro errori.
La logica ispiratrice dei referendum sarà anche un miglioramento del sistema giudiziario italiano, ma, così, a prima vista, pare più un restringimento dell’autonomia della magistratura, dei giudici con vecchie tattiche di introduzione di riforme che non puntano direttamente al cuore del problema (semmai esiste) ma vi arrivano per vie traverse. Con sei referendum, certificati da chi ha una storia anche illustre lastricata non solo di buone intenzioni, ma di rivoluzionamenti sociali, civili e politici conquistati a colpi di voto popolare diretto.
Ma vediamoli un attimo questi quesiti. Sono sei, si diceva, e saranno depositati in queste ore presso la Suprema Corte di Cassazione. Prevedono di intervenire su: 1) responsabilità civile dei magistrati; 2) separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante; 3) limitazione alla custodia cautelare; 4) abrogazione della legge Severino; 5) abolizione dell’obbligo della raccolta firme per i magistrati che vogliano candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura; 6) il diritto di voto per i membri non togati nei consigli giudiziari.
La riforma della giustizia italiana pare così passare non più attraverso il dibattito parlamentare, ma direttamente dall’appello al popolo. I sovranisti giocano la carta demagogica del ricorso al massimo dell’espressione democratica, per mostrarsi il meno prevenuti possibili nei confronti della magistratura stessa. Senza poter ancora entrare nel merito dei quesiti referendari, che vanno attentamente studiati, l’impressione che si trae al momento è quella di una distorsione di alcuni singoli importanti elementi tanto del merito quanto del metodo processuale per arrivare, da un lato ad una più facile prescrivibilità dei rati e dall’altro ad una compressione delle funzioni dei magistrati nel nome della “separazione delle carriere“, divenuta una specie di mantra, di mito onnipresente in ogni ventilata riforma della giustizia repubblicana.
Tutto gioca un po’ sul filo dell’equivoco cercato per sottintendere piuttosto piuttosto che per intendere. I punti toccati dai sei referendum possono anche avere un margine di interesse a sinistra, perché paiono interessare questioni che riguardano la tutela dei diritti degli imputati e, quindi, prima ancora, la garanzia di un giusto trattamento per ogni cittadina e ogni cittadino da parte del potere giudiziario; ma non va trascurato l’intento epifenomenico che si cela dietro la manifesta propaganda che verrà fatta per una “giustizia più giusta“, contro lo “strapotere dei giudici“, contro l’iniqua bilancia che vede giudici e accusa da un lato (senza la separazione delle carriere) e difesa dall’altro.
Che si metta il popolo davanti a tematiche così manipolabili da una facile strumentalizzazione demagogica tutta politico-partitica, fuori dal contesto istituzionale del potere altro rappresentato dal Parlamento; che, quindi, si de-istituzionalizzi la riforma della giustizia affidandola al pur giusto interessante giudizio popolare, appare anche in questo caso il ricorrere alla via più facile, quella della seduzione mediante promesse troppo altisonanti, non corrispondenti a quello che veramente i referendum attueranno qualora dovessero prima raggiungere le firme necessarie per trasformarsi in consultazioni e poi ottenere la maggioranza dell’assenso popolare per mutarsi in disposizioni modificanti l’attuale assetto tanto del diritto quando di uno dei poteri fondamentali dello Stato.
Il pericolo della strumentalizzazione – diretta o indiretta che sia – è alto: si tratta di temi molto tecnici, difficili da spiegare persino allo studente universitario che si occupa di giurisprudenza e magari di diritto costituzionale, figuriamoci alla casalinga di Voghera o al pensionato di Matera che non sono addentro ai garbugli molto poco azzeccati di una giustizia che pare troppe volte ridotta al rango di vendicatrice piuttosto che al giudizio equo, al reinserimento del reo nella società e alla soggiacenza dei giudizi – secondo Costituzione soltanto alla legge stessa.
In attesa di saperne un poco di più, non è affatto fuori luogo tenere un atteggiamento prudente, un po’ guardingo: perché i referendum non sono uno strumento neutro ma, a seconda di chi li propone, possono essere utilizzati per stravolgere elementi portanti della nostra democrazia e garanzie per tutte e tutti. Anche per chi deve giudicare. Soprattutto per chi deve essere soggetto soltanto alla legge e non a questo o quel potere che di volta in volta si avvicenda al governo del Paese.
MARCO SFERINI