Quando si decide di andarsene dal mondo grande e terribile, di uscirne improvvisamente attraversando il punto di non ritorno, bisognerebbe sospendere ogni opinione, ogni commento, ogni giudizio. Lasciare al tempo del silenzio quella direzione morale delle coscienze che invece si agitano per capire, per trovare un senso, per dare una giustificazione, per attribuire quello che si ritiene debba essere comunque un valore per un geso estremo, irripetibile, sovente incomprensibile per chi pensa di trovare nella vita così tanti significati da interpretare ogni giorno come significante.
L’addio di Seid a sé stesso, e a tutti gli altri in questa Terra, però non è un congedo qualunque. C’è quello scritto affidato ai social, alcuni anni fa, in cui meglio di un Émile Zola esprime un atto di accusa per tutta la pesantezza che porta addosso per ciò che di lui appare: il colore della pelle. E’ un giovane che arriva dalla culla dell’umanità, l’Etiopia. E’ italiano di adozione, in tutto e per tutto: scuola, amici, genitori, parenti, interessi sportivi. Eppure molti vedono in lui lo straniero, l’estraneo, il diverso dall’autoctonia cui una certa destra sovranista affida la primazia dei diritti sociali e civili. Prima gli italiani. Eppure Seid lo è.
Il suo nome non è italiano? E allora? Quanti genitori italiani oggi chiamano i figli con nomi che rimandano ad ogni capo del pianeta? Kevin, Goerge, Christopher, Samantha, Richard, Leon… C’è n’è per ogni latitudine e longitudine. No, non è il nome che per primo forma negli altri il pregudizio, ma sempre (e non soltanto) il colore della pelle.
Il rispetto per la vita e per la morte di Seid passa necessariamente attraverso le sue parole, quelle lette in chiesa al funerale, quelle che possono anche essere considerate uno “sfogo“, ma che non ne hanno per niente l’aspetto, il colore sintattico, il timbro vocale se le si prende e le si legge ad alta voce a sé stessi prima che agli altri.
Seid pondera ogni termine, lo mette al posto giusto e descrive alcune scene di vita quotidiana che fanno rabbrivvidire se si pensa che parliamo del presente e non dei tempi del colonialismo italiano in Africa, del razzismo americano o dell’apartheid sudafricano. Seid fa una scansione temporale dei fatti, dello scorrere dalla sua vita: ricorda l’infanzia, il periodo in cui si sentiva amato da tutti e dove non c’era chi lo scansava come cameriere, chi lo accusava di portare via il lavoro agli italiani. Come lui, ma bianchi.
E’ il periodo del governo giallo-verde, degli sbarchi dei migranti addiati come gli “invasori“, delle navi bloccate nei porti e al largo, della propaganda governativa dai “taxi del mare” al “cuore immacolato di Maria“. Vangelo e rosario alla mano, il ministro dell’Interno è ovunque in televisione e ripete sempre la stessa geremiade: difendere i confini sacri d’Italia dalla marea di clandestini che vogliono entrare nel Paese e, per farlo, usare qualunque mezzo. Qualche suo alleato arriva a ipotizzare blocchi navali e affondamenti di navi. Ma vuote. L’umanità dei sovranisti…
Seid, vive quel momento proprio sulla sua pelle, letteralmente. E non lo vive come noi italiani di pelle bianca. Lui si sente discriminato; noi come prima reazione proviamo rabbia verso i connazionali. Ma pensiamo sempre “in bianco“. Anche non volendolo, gli italiani noi li pensiamo tutti bianchi. Ed invece non è così.
Il problema è un colore, una pigmentazione epidermica, una differenza che ha radici di odio profonde e che si trascina nei secoli e perpetua il suo lascito malsano di discriminazione, regalando ignoranza agli ignoranti, cattiveria molesta ai razzisti di professione e a quelli accalappiati con le promesse elettorali di mandare a casa tutti i migranti. O quasi.
Se dall’opposizione, ma soprattutto dal governo, agiti le incoscienze incivili di milioni di italiani, facendo leva sul disagio sociale, sulla crisi economica, senza aver ancora potuto immaginare che sarebbe arrivata una pandemia a stravolgere ogni contesto, anche di natura politica, il risultato finale è la creazione di un clima generale in cui la percezione prevale sulla realtà, l’ipotesi sulla concretezza dei fatti, la facilità del preconcetto sulla più difficile analisi delle circostanze.
Così si vengono a fossilizzare tutte le peggiori condizioni per la strutturazione di un razzismo massificato. Un razzismo che va ben oltre le ondate xenofobe dei tempi in cui i marocchini facevano i “vu cumprà” e gli albanesi passavano in Puglia su navi stipate all’inverosimile. C’era il razzismo, ma c’era al contempo ancora una eredità culturale e sociale nata nel dopoguerra, sviluppatasi negli anni ’50 e ’60 con grandi movimenti di massa ispirati da una tensione emotiva alimentata da una alfabetizzazione solidaristica estesa: dallo studente universitario al contadino, dal borghese di città a quello di provincia.
Insomma, la voglia di uguaglianza era ancora il fulcro di un’etica pubblica e personale cui derogavano solo i neofascisti missini, fingendo di essere sociali mentre lavoravano per le peggiori trami eversive, per un ritorno a regimi autoritari mediante logge massoniche e servizi segreti deviati. Quell’uguaglianza era cultura diffusa, pervadeva un po’ tutto e tutti, perché era sostenuta da tutto l’arco costituzionale e andava dagli ambienti ecclesiastici alle case del popolo; dagli oratori ai campi scout, dalle società di mutuo soccorso ai circoli ARCI; dall’ANPI alla CGIL, dalle fabbriche ai circoli operai, dalle scuole superiori alle università.
Ha ragione Seid quando vede cambiare il Paese in poco tempo, dalla sua infanzia alla sua adolescenza per arrivare alla maturità. Lui, che si fidanza con una ragazza finlandese, oltrepassa ogni confine reale e immaginario. Come Sidney Poitier, ama senza acccorgersi dei colori, vede persone e non i bianchi e i neri che (quasi) tutti gli altri vedono.
Ma l’Italia del nuovo secolo è tanto diversa da quella degli anni ’80. La comparsa delle leghe separatiste, antimeridionaliste e razziste genera un nuovo tipo di rivolta sociale: non più contro chi sfrutta i lavoratori, ma contro una politica che si è fatta detestare, che ha utilizzato le risorse pubbliche per favorire solo interessi privati e che, quindi, apre la strada alla stagione berlusconiana che, per vincere sui residui delle culture democratiche di centro e di sinistra, mette insieme il peggio: neofascisti e separatisti, razzisti in camicia nera passati per Fiuggi e squadristi in camicia verde.
L’Italia cambia, l’uguglianza non va più di moda e la cultura sociale, le rivendicazioni operaie e la voglia di rivoluzione segnano il passo. Il riformismo dà il colpo di grazia a ciò che rimane della sinistra comunista: con la fine dei grandi partiti di massa termina anche il rapporto di fiducia tra cittadini e rappresentanza politica. E si può dire che, ad oggi, quel connubio, quella simbiosi non sono stati ancora recuperati.
Il razzismo quotidiano in cui vivono i ragazzi e le ragazze è qualcosa con cui non si deve fare i conti estemporaneamente, ma sistematicamente. E’ una tristissima caratteristica di questi tempi in cui la povertà cresce e con lei il consenso nei confronti di forze di destra che stabiliscono il cortocircuito per la tempesta perfetta: a parole sono rispettose delle diversità; pregano per le vittime delle violenze e, nello stesso istante, affermano che una volta nuovamente al governo rifaranno esattamente ciò che hanno fatto ogni volta che un gommone sbarcava sulle coste siciliane o una nave di una ONG chiedeva un approdo in un porto sicuro.
Le parole di Seid, a distanza di due, tre anni, non sono affatto intempestive, inattuali, anacronistiche. Magari fosse così… Proprio pochi giorni fa, un medico dell’INPS va a fare una visita fiscale a Chioggia. Deve verificare che un lavoratore si trovi nella sua abitazione. Scopre che non è così, cerca di redigere un verbale e viene aggredito con spintoni, insulti e fatto oggetto di minacce di morte. Racconterà ai giornalisti che più della violenza fisica e verbale, che pure fa male, ciò che lo ha turbato maggiormente è stata la completa indifferenza dei vicini di casa di quell’energumeno.
Non dica nessuno che sono episodi. Sono parte della retrocessione morale, civile, sociale e culturale di una Italia che Seid ha molto bene fotografato nel suo post su Facebook. Merita di essere letto e riletto, perché è una pagina di educazione civica, una analisi sociologica attenta, una istantanea di quanto ci siamo abbruttiti, di quanta superficialità ci pervade, di quanta poca voglia di conoscere abbiamo:
«Sono stato adottato da piccolo. Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto. Ovunque io vada, ovunque io sia, sento sulle mie spalle come un macigno il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone
Ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani non trovassero lavoro. Dentro di me è cambiato qualcosa. Come se mi vergognassi di essere nero, come se avessi paura di essere scambiato per un immigrato, come se dovessi dimostrare alle persone, che non mi conoscevano, che ero come loro, che ero italiano, bianco.
Non voglio elemosinare commiserazione o pena, ma solo ricordare a me stesso che il disagio e la sofferenza che sto vivendo io sono una goccia d’acqua in confronto all’oceano di sofferenza che sta vivendo chi preferisce morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente vita».
Non è soltanto una questione ascrivibile al disagio sociale. E per questo va contrastata e respinta ogni volta, senza esclusione, senza esitazione. Non si dave lasciar passare nessuna parola, nessuna frase, nessun comportamento che accresca il peso di quel macigno che Seid sentiva addosso e che, se non è stato la causa della sua morte, non si può certo dire che sia stato una ragione per vivere sereneamente in un’Italia per cui vi sono sempre meno motivi di andarne fieri.
MARCO SFERINI