L’inevitabile fine dell’era di Bejamin Netanyahu, il più longevo primo ministro nella storia di Israele, è giunta lo scorso 13 giugno, quando la Knesset, il parlamento unicamerale del Paese mediorientale, ha votato la fiducia a Naftali Bennett, che diventa dunque il nuovo capo del governo con un verdetto di 60 voti favorevoli, 59 contrari ed un assente. Il quarantanovenne leader del partito della Nuova Destra (HaYamin HeHadash), meglio noto come Yamina, ha ottenuto l’incarico grazie all’accordo anti-Netanyahu raggiunto da varie forze politiche di orientamento politico completamente diverso, e a metà mandato dovrà lasciare il posto a Yair Lapid, capo di Yesh Atid (“C’è un Futuro”), il vero padre di questa coalizione di governo.
Certamente, la fine del regno di Netanyahu, al potere da dodici anni consecutivi, non può che essere una buona notizia. “Bibi” dovrà ora affrontare il processo a suo carico, nel quale è accusato di corruzione e di altre nefandezze. Tuttavia, il nuovo governo non lascia molte speranze in un vero cambiamento di politica da parte di Israele, soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti della popolazione palestinese. Certo, nella coalizione di governo troviamo anche – per la prima volta in assoluto – un partito arabo, la Lista Araba Unita (in arabo: al-Qā’ima al-‘Arabiyya al-Muwaḥḥada; in ebraico: HaReshima HaAravit HaMe’uhedet), nota come Ra’am, ma il suo leader, Mansour Abbas, ha detto chiaramente che l’obiettivo di Ra’am è quello di fare gli interessi degli arabi che sono cittadini israeliani, non dei palestinesi.
Oltretutto, Bennett e la maggioranza dei leader dei partiti che sostengono il nuovo governo sono in realtà creazioni politiche di Netanyahu, ed in passato hanno fatto parte dei suoi governi. Il nuovo premier, in particolare, ha ricoperto incarichi ministeriali in maniera praticamente ininterrotta dal 2013 al 2020 e, fino al 2008, era egli stesso un membro del Likud (“Consolidamento”), il partito di Netanyahu. Quanto a Yair Lapid, che ha assunto ora l’incarico di ministro degli Esteri, egli è stato ministro delle Finanze di Netanyahu tra il 2013 ed il 2014. E lo stesso si può dire di Avigdor Lieberman, leader del partito Yisrael Beiteinu (“Israele Casa Nostra”), che fino al 2018 era uno dei più stretti collaboratori di “Bibi”.
Il ministero degli Esteri della Palestina, non a caso, ha affermato di aspettarsi pochi cambiamenti nella politica israeliana nei confronti dei palestinesi sotto il nuovo governo di Naftali Bennett. “Questa volta in Israele si è formato un governo senza Netanyahu. Tuttavia, non è corretto definirlo un “governo del cambiamento”, a meno che non si voglia dire che Netanyahu non c’è più“, si legge nella dichiarazione del ministero degli Esteri. “Per quanto riguarda le politiche del nuovo governo, stimiamo che non vedremo differenze, o che forse sarà anche peggio”.
Della stessa opinione il primo ministro palestinese, Mohammad Shtayyeh, che ha certamente accolto con favore la fine dell’era Netanyahu, ma allo stesso tempo ha anche detto di non farsi illusioni sul nuovo governo o sulla sua probabilità di portare avanti un accordo di pace. Per quanto riguarda il partito Ḥamās (Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya, ovvero Movimento Islamico di Resistenza), il portavoce Fawzi Barhoum ha affermato che qualsiasi governo israeliano è “un’entità occupante di coloni a cui si deve opporre ogni forma di resistenza, prima fra tutte la resistenza armata“.
Giustamente, i palestinesi non hanno dimenticato le origini di Naftali Bennett, che da sempre si è dichiarato contrario alla formazione di uno Stato palestinese. Sebbene di recente le sue posizioni siano apparse più moderate rispetto al passato, il nuovo premier è colui che in passato si vantava di aver “ucciso molti arabi nella [sua] vita“, aggiungendo che “non c’è niente di sbagliato in questo“, oppure che affermava di considerare tutti i bambini palestinesi come terroristi. Sotto la guida di Bennett, dunque, sarà difficile vedere una vera evoluzione del conflitto tra Israele e Palestina.
Anche il nuovo ministro degli Esteri e futuro premier Yair Lapid ha espresso posizioni che non lasciano intravedere un vero cambiamento di atteggiamento da parte di Israele. Lapid ha infatti affermato di volersi strenuamente opporre all’accordo sul nucleare iraniano, confermando quindi la posizione del precedente esecutivo. L’unica cosa che Lapid ha rimproverato a Netanyahu in materia di politica estera è il fatto di essersi avvicinato eccessivamente al Partito Repubblicano statunitense, allontanandosi invece dal Partito Democratico. Lapid ha praticamente ammesso che Israele ha sempre goduto di un sostegno bipartisan da parte degli USA, ed ha accusato “Bibi” di aver messo a repentaglio i rapporti tra i due Paesi per via delle sue posizioni troppo sbilanciate in favore dei repubblicani, ed in particolare di Donald Trump. “La gestione del rapporto con il Partito Democratico negli Stati Uniti è stata negligente e pericolosa“, ha detto Lapid. “I repubblicani sono importanti per noi, la loro amicizia è importante per noi, ma non solo l’amicizia del Partito Repubblicano. Ci ritroviamo con Casa Bianca, Senato e Camera in mano ai democratici, e sono arrabbiati. Dobbiamo cambiare il modo in cui lavoriamo con loro“.
L’apertura da parte di Lapid nei confronti dei palestinesi è stata invece molto più timida, un mero artificio retorico per ingraziarsi la monarchia hascemita di Giordania, Paese confinante con il quale i rapporti si sono deteriorati – a detta di Lapid – a causa del governo Netanyahu. “Potremmo non aspettarci presto un accordo sullo status definitivo, ma c’è molto che possiamo fare per migliorare la vita dei palestinesi e il dialogo con loro sulle questioni civili“, ha affermato.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog