Su Domani della scorsa settimana un economista, Stefano Bragantini, ha osservato, tra l’altro, che «non è colpa del governo se nel paese c’è più voglia di mare che di lavorare al futuro, ma qui serviva il coraggio». È valutazione condivisibile perché integra una verità di fatto facilmente percepibile. Valutazione di ordine generale che dipende fino a un certo punto dal post-pandemia (a cui non siamo purtroppo ancora pervenuti); ed è, invece, proiettabile nei decenni immediatamente precedenti il nostro in conseguenza di mutamenti non irrilevanti che si sono determinati nei costumi e, ancor più, nelle strutture economiche del Paese.
In queste settimane Rai Storia ha lanciato un programma che invita alla riflessione raccontando le vicende di sedici personaggi che hanno contributo alla straordinaria crescita dell’Italia nel secondo dopoguerra. Tra questi vi è Giovanni Borghi che, oggi, è sconosciuto ai più; ma si tratta dell’imprenditore, di umili origini, che ha fatto dell’Ignis un colosso mondiale i cui prodotti – elettrodomestici – a un certo momento invasero anche il mercato americano. Un gran successo economico, un successo del Paese; a cui si aggiunse il successo sportivo nel campo del ciclismo e del basket (l’Ignis sette volte campione d’Italia, quattro volte d’Europa, tre volte del mondo).
Di esempi come questo se ne potrebbero fare tanti altri: tante industrie, anche nel settore tecnologico, ai vertici mondiali. Di tutto ciò è rimasto quasi nulla. Ovviamente ci sono le ragioni di questa perdita di cui stiamo pagando, e pagheremo, il conto. E ci sono anche le colpe. Ma non è il caso di avviarci a ricerche del genere. Nei fatti abbiamo cercato di sopperire incrementando il settore turistico: in fondo era la cosa più facile da fare. Ma avere stabilimenti balneari, stazioni sciistiche, alberghi, ristoranti, bar ecc. ha compensato veramente l’arretramento, talora la scomparsa, di vari settori della produzione industriale? I lavoratori erano più tutelati dalle rappresentanze sindacali all’interno dei grandi gruppi industriali oppure lo sono di più oggi i riders o il personale a nero addetto alla ristorazione? E, poi, tutto ciò non ha forse inciso su i costumi degli italiani? Si direbbe di sì se si contano le masse di plateatici che hanno occupato sempre più le piazze (le magnifiche piazze) e le vie italiane al punto che non poche Soprintendenze si sono levate a protestare in difesa della monumentalità di tante città storiche italiane. Ma è dappertutto così? Ricordo che qualche anno fa a Parigi mi sono trovato a cercare un bar nel lungo tratto che va dalla Tour Eiffel a Place de La Concorde: non ne ho incontrato uno, salvo che mi sia sfuggito (ma certo non ho visto catene di plateatici …).
Torniamo a Bragantini: Draghi, egli scrive, si era impegnato per prorogare la chiusura delle scuole almeno fino alla fine di giugno. Non c’è l’ha fatta (prevedibilissimo); avrebbe dovuto osare e rompere gli schemi. Penso piuttosto che Draghi abbia capito che non ne valeva la pena: la proroga non avrebbe portato alcuna reale utilità, tenuto conto di come è ormai messa l’istruzione pubblica in Italia. Ma Bragantini ha cento ragioni quando scrive che, da noi, il calendario scolastico è pesantemente condizionato da un’impropria alleanza tra operatori del turismo e famiglie (specie quelle più abbienti) per la quale prima si termina e più tardi si comincia meglio è; come pure più festività in corso d’anno vi sono (le settimane bianche …) meglio è. La pandemia ha solo offerto una nuova occasione a quest’alleanza per irrompere nel calendario scolastico; ma negli anni precedenti l’avevamo vista viva e pugnace anche a livello regionale e capace di influenzare la proposta politica degli assessori all’istruzione (così è puntualmente accaduto, per esempio, nella Regione Veneto).
Ma è corretto che i tempi (e anche altro) dell’istruzione pubblica siano scanditi, attraverso l’agere di politici in preda all’angoscia della rielezione, da soggetti privati che perseguono interessi privati? Corretto è che un imprenditore si determini secondo i suoi interessi (fino a un certo punto, però, perché egli vive e opera in una comunità); ma altrettanto, e di più, è corretto che lo Stato e gli enti pubblici perseguano esclusivamente (e sperabilmente realizzino) gli scopi istituzionali. Da questo punto di vista è grave che la scuola – meglio gli studenti – siano strumentalizzati al fine di garantire un certo profitto alle imprese turistiche, anche se accade – come accade ormai in Italia – che a queste ultime sia affidata una quota considerevole del PIL nazionale.
Ciò non si darebbe se i soggetti istituzionali – le persone a cui siano consegnate le funzioni pubbliche – non fossero disponibili verso i desiderata delle corporazioni private; ma se questo accade, inevitabile è che lo scopo istituzionale o non sarà più perseguito o sarà parzialmente perseguito o sarà fittiziamente perseguito.
Chi sia investito di un pubblico potere dovrà, invece, essere, divenire, apparire indipendente, appunto al servizio esclusivo della comunità (generale). Questa antropologia non è un dono di nascita o una qualità naturale degli uomini in genere; ma è il frutto di uno sforzo educativo a cui debbono attendere innanzi tutto le scuole e le università. Ma queste agenzie educative si dedicano ad introdurre i giovani alla comprensione di che sia un’istituzione pubblica? O, anche laddove si affronti una simile ricerca, il massimo che si riesca a fare non è forse la descrizione di un ordinamento legale a partire da quello costituzionale? L’approccio è formalistico oppure si va oltre? È un’indagine, questa, che meriterebbe di essere intrapresa e, forse, ne sapremmo qualcosa di più circa il basso livello di spirito pubblico che alligna in Italia.
Tutto ciò innesca una sequenza: passaggi suggestivi, a cascata, alquanto fitti. Ne ricordo due soltanto, per essenzialità.
Primo. Abbiamo assoluto bisogno di dirigenti politici indipendenti. Gli uomini non sono tutti egualmente affidabili. E il Paese ha bisogno di uomini indipendenti e affidabili; e sufficientemente acculturati su che sia e come funzioni un’istituzione pubblica. L’impressione è che oggi ce ne siano pochi o pochissimi in circolazione. Ma uomini di questa cifra non mancano in Italia. Occorre renderli visibili. Per ottenere – o cercare – questo risultato sono necessari vari fattori. Per esempio, la piena trasparenza del curriculum vitae del candidato politico: interessa non solo la sua professionalità, ma anche la sua condotta precedente. Qui la privacy deve cedere all’interesse generale; altrimenti sarà inevitabile che si potranno oscurare vicende non commendevoli e questo una repubblica non può ammetterlo.
Tutto ciò è scritto da secoli se non da millenni: anche solo una scorsa ai Praecepta gerendae rei publicae di Plutarco basterebbe a convincersene perché non si tratta di un semplice repertorio di Consigli ai politici (come talora si è pensato – impropriamente – di tradurre il titolo latino), ma di un prontuario per gli elettori affinché siano corredati dei criteri essenziali per scegliere, votando, tra i candidati politici quelli che potrebbero fare o far meglio gli interessi della repubblica.
Domandiamoci se noi – come corpo elettorale – siamo mai stati educati in questa prospettiva che non è di una o dell’altra parte politica, ma accomuna tutte le parti politiche nel senso vi sono dei criteri oggettivi per guidarci all’elezione del candidato migliore nel contesto di qualunque organizzazione partitica.
Ma se ciò è scritto – e basterebbe aver voglia di leggere qualcosa anche attraverso l’internet – è pregiudiziale che il sistema normativo consenta – e consenta pienamente – ai cittadini di scegliere. Allora domandiamoci ulteriormente perché mai vi sia da noi una tacita convenzione trasversale che ha condotto a negare agli elettori il potere di operare una scelta effettiva e li abbia invece vincolati dentro le cosiddette liste bloccate.
Qualcosa in questa direzione il M5S aveva provato a fare, anche se, a mio avviso, sarebbe stato necessario che la piattaforma Rousseau si inventasse un format funzionale a costringere i candidati ad esporsi al punto da essere loro davvero trasparenti a fronte di un elettorato educato e interessato a valutarne l’adeguatezza in relazione alla disponibilità a perseguire l’interesse comune. Casaleggio ha ragione fino a un certo punto quando dichiara che grazie a M5S si è affacciato alla politica (anzi, ai vertici) un homo novus quale Giuseppe Conte. L’avvocato del popolo è stato imposto dai dirigenti del Movimento e non scelto dagli elettori del medesimo. E spiace anche, lo si è già scritto, che ora si metta in discussione, dopo averla meritoriamente riesumata, una regola aurea quale quella del divieto del terzo mandato, di antica tradizione democratica e repubblicana: segno che gli uomini che si affacciano al potere per quanto novi, poi difficilmente rientrano nei ranghi (ed è per questo che la regola aurea si pone come un formidabile antidoto).
Secondo. Ci siamo proprio dimenticati che, se desideriamo il cambiamento, non bastano gli uomini adeguati (anche se sarebbe già molto che riuscissimo a trovarli …). Occorrerebbero, prima di tutto, che costoro – o i loro consiglieri – avessero delle idee da mettere in campo. Mi sbaglierò ma non ne vedo una. Mi riferisco alle idee in grado di determinare assetti politici, sociali, economici diversi, se non proprio alternativi, a quelli in atto. Insistere sui diritti o sulla loro universalizzazione; vagheggiare un governo mondiale o, almeno, transnazionale come ha recentemente proposto Aldo Schiavone; ipotizzare forme di tassazione globale per lenire le diseguaglianze; insomma cose di questo genere o non rappresentano effettivi cambiamenti (anzi, potrebbero essere facilmente strumentalizzati da chi ha in mano il potere economico); o si risolvono in utopie che possono suggestionare attraverso libri patinati e ben scritti, ma che risultano inutili alla prova dei fatti.
Dietro a un’idea – di quelle del tipo ora accennato – c’è una visione, una volontà, un proposito, un ideale. Così il mondo è andato avanti. Il denaro viene dopo e non è ovunque necessario. Oggi lo abbiamo dimenticato. Sarà il neo-liberismo, chissà. Io ci vedo anche un’umanità – mi riferisco all’Occidente – in certo senso asservita, pesantemente conformista, sicuramente poco propensa a dedicare tempo e sacrificio per realizzare idee che non conosce o verso cui non mostra interesse alcuno. Così le cose non cambieranno mai e chi prospera continuerà a farlo e non si opporrà realmente alla legge contro le diseguaglianze di genere e nemmeno, credo, alle stucchevoli proposte del segretario del PD.