Che un dipendente sia tenuto al rispetto dei principi di correttezza e buona fede è un fatto risaputo così come l’obbligo di non diffondere documenti aziendali, valido nel pubblico e nel privato, ma negli ultimi anni i doveri imposti hanno avuto il sopravvento sul diritto non solo di critica, ma anche di opinione. Poco importa che la diffusione di documenti aziendali sia magari a tutela dell’interesse pubblico, conta l’obbligo di fedeltà anche davanti a decisioni che lascerebbero basiti increduli cittadini e sinceri democratici.
Nelle aziende private e negli Enti pubblici esistono codici Etici e di comportamento che di fatto impediscono la libertà di parola al di fuori del posto di lavoro, critiche espresse pubblicamente in assemblee o sui social, possono essere motivo di provvedimenti disciplinari e di licenziamenti.
Colpisce il silenzio assenso dei sindacati rispetto a queste norme aziendali e perfino la supina accettazione del legislatore a regole che inficiano la libertà di espressione che dovrebbe, in teoria, essere garantita dalla stessa Costituzione.
Anni fa scrivevano che la democrazia dovrebbe oltrepassare il cancello delle aziende, democrazia nei luoghi di lavoro non significa solo potere di contrattazione ma prevenire comportamenti vessatori e repressivi dei datori.
Ci siamo imbattuti in numerosi casi di ordinaria repressione, in dipendenti che per un semplice like a post sui social privi di ogni carattere offensivo e denigratorio, sono stati licenziati o soggetti a procedimenti disciplinari conclusisi con pesanti sanzioni economiche, abbiamo incontrato dipendenti “modello” che hanno pagato la partecipazione a iniziative di piazza e alcune denunce con la perdita del posto di lavoro.
Il principio del danno di immagine per la Pubblica amministrazione è il vero cavallo di Troia per la stessa azione sindacale, se critichi la cattiva gestione di servizi al cittadino devi essere consapevole che il tuo Ente potrà aprire un procedimento disciplinare a tuo carico e facilmente diventerai il capro espiatorio.
Lavoratori che hanno denunciato disservizi, assenza di personale sono stati sospesi per settimane senza retribuzione nonostante la finalità della loro azione non fosse quella di denigrare l’Ente o il datore di lavoro, ma di criticare decisioni politiche e gestionali che portano al depotenziamento dei servizi pubblici.
Non mancano casi di lavoratori, o lavoratrici, che hanno pagato con la perdita del posto errori che avrebbero dovuto essere corretti da superiori, nel frattempo rimasti impuniti, l’anello debole della catena produttiva sono sempre i livelli più bassi, indifesi e facilmente attaccabili. E nel caso dei dipendenti della Pubblica amministrazione c’è sempre la mannaia del risarcimento del danno da parte della Magistratura contabile assai più tenera invece con le responsabilità politiche.
Ci sembra evidente che la presenza dei codici disciplinari non sia finalizzata a dettare un sistema di regole finalizzato al miglioramento delle prestazioni o a sanzionare illegalità e illeciti, è piuttosto un insieme di regole miranti a tappare la bocca dei lavoratori e delle lavoratrici trasformando sovente il diritto di critica in azione denigratoria.
È arrivato il momento che lo stesso “diritto borghese” inizi a riflettere sulla natura regressiva e repressiva dei codici di comportamento aziendali e non solo a tutela della democrazia ma anche della libertà di espressione e di parola.
Redazione pisana Lotta Continua. Da: https://delegati-lavoratori-indipendenti-pisa.blogspot.com
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