Negli ultimi tempi, le amministrazioni del capoluogo emiliano hanno spesso messo al centro del proprio agire politico il concetto di “partecipazione”. Ma si tratta di processi reali o è solo retorica?
Un osservatore straniero interessato a studiare la città di Bologna rimarrebbe colpito dall’enfasi posta dagli amministratori locali sul tema della partecipazione. Ma se andasse al fondo della questione, se grattasse sotto la superficie, si renderebbe conto ben presto dello scarto tra la narrazione e la realtà. Il caso di Bologna offre molte chiavi di lettura per decodificare il rapporto tra le pratiche di partecipazione riservate ai cittadini e la costruzione del sistema di governo.
I CORDONI DELLA BORSA
L’ultimo arrivato nella grande famiglia della partecipazione alla bolognese è il bilancio partecipativo, avviato nell’estate 2017 dopo anni di promesse (era un punto già presente nella campagna elettorale di Sergio Cofferati, sindaco della città dal 2004 al 2009).
Bisogna innanzitutto ricordare che il bilancio municipale partecipativo ha le sue radici a Porto Alegre, la capitale dello stato del Rio Grande do Sul in Brasile, dove il Fronte popolare guidato dal Partido dos Trabalhadores vinse le elezioni amministrative nel 1988. Il processo avviato subito dopo dal nuovo governo locale era basato su un sistema di assemblee popolari di quartiere chiamate a decidere i principali campi di azione da finanziare e a eleggere i propri delegati ai forum distrettuali e al Consiglio del bilancio partecipativo, l’organo incaricato di elaborare la proposta finale di bilancio. Successivamente questa idea si è diffusa in alcuni paesi in America Latina e in Europa.
È naturale che le pratiche sociali vengano declinate in modi differenti a seconda dei contesti in cui vengono esportate. Bisogna però domandarsi se le esperienze derivate dall’idea originaria ne conservino i tratti fondamentali oppure ne tradiscano lo spirito e ne utilizzino il nome in modo arbitrario o strumentale.
Per una comparazione con il caso bolognese, possiamo isolare quattro aspetti cruciali dell’esperienza brasiliana: i cittadini potevano modificare le regole del processo partecipativo; la finalità era stabilita in modo netto (“Il bilancio partecipativo è una forma pubblica di gestione del potere”); le proposte provenienti dai quartieri venivano inserite nel quadro dell’amministrazione complessiva della città; veniva messa a disposizione una porzione significativa delle finanze municipali (inizialmente il 10% del bilancio, poi la quota è salita al 25%).
La combinazione tra questi elementi rende il bilancio partecipativo un processo dagli esiti tangibili e produce effetti che vanno al di là del bilancio stesso, poiché lo trasforma in un percorso “pedagogico” lungo il quale le comunità locali hanno la possibilità di autoformarsi e prendere parte in modo consapevole al governo della città intera.
Nulla di tutto questo è rintracciabile nel bilancio partecipativo bolognese. Le regole, innanzitutto, sono stabilite dall’amministrazione comunale e non possono essere messe in discussione. Le finalità sono espresse in termini estremamente generici e non stabiliscono alcun trasferimento reale di potere ai cittadini. La partecipazione è confinata all’interno dei singoli quartieri, senza coordinamento tra di loro, e questa segmentazione impedisce ai cittadini una visione globale dei problemi della città.
Inoltre – e si tratta di un aspetto decisivo – la somma stanziata per il processo partecipativo è solo simbolica: attualmente si tratta di due milioni di euro, pari allo 0,20% del bilancio comunale, poco più di 300.000 euro per ciascuno dei quartieri in cui è suddivisa la città, il più piccolo dei quali conta 60.000 abitanti.
Infine, la modalità scelta per la selezione finale dei progetti (una votazione on-line, decisa ben prima della pandemia) rappresenta un modello partecipativo virtuale che sta all’opposto del coinvolgimento diretto e della responsabilizzazione, mentre la “campagna elettorale” in cui ciascuno deve impegnarsi per far prevalere il proprio progetto sugli altri, entusiasticamente sostenuta dall’amministrazione comunale, sta all’opposto della cooperazione – ciò che di positivo un processo partecipativo dovrebbe innescare – ed è ricalcata su modelli politici tradizionali, gli unici possibili per un ceto politico privo di immaginazione.
TECNICHE E RITI
Il bilancio partecipativo è – dunque – un bello slogan, ma nella realtà i cittadini non possono incidere – se non in misura simbolica – sul bilancio comunale. Non si tratta, però, dell’unico percorso partecipativo depotenziato. Gli esempi più rilevanti di azioni condotte in modo da rendere inefficace il punto di vista dei cittadini vanno rintracciati nel campo dell’urbanistica. Di grande rilevanza ciò che è accaduto nell’autunno del 2016, quando si è svolto il confronto pubblico relativo al “passante di mezzo”, progetto che prevede l’ampliamento della tangenziale e dell’autostrada che corre al suo interno. Il risultato sarà una strada a sedici corsie che incrementerà il traffico e l’inquinamento.
(commons.wikimedia.org)
L’amministrazione comunale aveva bisogno di ammorbidire l’opposizione dei comitati di cittadini che si erano rapidamente costituiti e, con il supporto di esperti, volevano sapere come mai un progetto che tempo prima era stato bocciato perché ritenuto estremamente nocivo per la salute della popolazione fosse diventato improvvisamente “sostenibile”. Per provare a disinnescare il dissenso, viene organizzato un confronto pubblico addomesticato attraverso una serie di decisioni preliminari e di tecniche di conduzione. Innanzitutto, viene chiarito che l’opera si farà e che lo scopo del confronto non è quello di metterla in discussione, ma di invitare i partecipanti a suggerire miglioramenti per ottenere effetti di mitigazione dell’impatto ambientale.
La partecipazione viene in tal modo privata della sua principale ragione d’essere: rendere i cittadini protagonisti di una scelta. Ma questo non basta ancora. Vengono rigorosamente limitati il tempo a disposizione (non più di due mesi) e la possibilità di approfondimento (il numero di incontri è estremamente limitato). Infine, la conduzione del confronto viene affidata a “facilitatori” che avrebbero dovuto garantire l’imparzialità del processo e aiutare i cittadini a formulare proposte e che nella pratica si sono adoperati per incanalare le obiezioni in una direzione compatibile con le esigenze dell’attuatore del progetto (Autostrade per l’Italia).
Un confronto-farsa, quindi, che utilizza in modo ancora più stringente due elementi che già da tempo erano entrati a far parte del sistema partecipativo bolognese: la definizione di un perimetro ristretto entro il quale i cittadini possono esprimere la loro opinione, senza alcuna possibilità di introdurre temi e metodi di discussione in modo autonomo, e l’affidamento a un ceto specializzato deputato a condurre per mano cittadini considerati inesperti e bisognosi di essere istruiti in modo paternalistico.
I “facilitatori del consenso” incarnano la de-politicizzazione dei processi partecipativi, l’arretramento delle istituzioni rispetto alla “tecnica” (che – separata dalla politica – si traduce facilmente in manipolazione) e la conseguente abdicazione delle istituzioni al proprio ruolo, che implica la capacità di ascoltare, interpretare e comporre in un’azione di governo i bisogni, le conoscenze, le proteste e il dissenso di tutti i cittadini, riconoscendo loro una capacità autonoma di autorappresentarsi senza mediazioni artificiali.
Il confronto sul “passante” rappresenta l’involuzione della stagione dei laboratori di urbanistica partecipata inaugurata circa quindici anni prima, ma – a ben guardare – questo esito era già scritto proprio in quelle esperienze, e in particolare nel percorso partecipativo messo in piedi nel 2005, al tempo della giunta Cofferati, per correggere un pesante intervento edilizio voluto dalla precedente giunta di centro-destra nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo, nel quartiere Bolognina.
(commons.wikimedia.org)
Quel percorso nasceva con presupposti diversi rispetto agli interventi attuali, soprattutto perché intercettava mobilitazioni nate spontaneamente nel quartiere. Ma anche in quel caso venne posto un limite invalicabile: la cubatura complessiva prevista inizialmente doveva comunque essere assicurata. Non si trattava solo di un limite tecnico, ma dell’accettazione del paradigma della crescita economica basata sull’espansione edilizia. I meccanismi partecipativi produssero esiti positivi per quanto riguarda la ricucitura dell’insediamento rispetto al tessuto urbanistico e la dotazione di verde pubblico, ma al tempo stesso occultarono il nocciolo della questione, la vera posta in gioco.
Già in quella fase si può leggere in controluce la separazione dei processi partecipativi da quelli decisionali, una separazione che annullò rapidamente i risultati ottenuti, spazzati via dalla crisi. Per lungo tempo gli scheletri dei palazzi incompiuti circondati da collinette di detriti e da opere di urbanizzazione lasciate in sospeso hanno rappresentato un monumento al fallimento di un modello di sviluppo che l’amministrazione comunale continua ostinatamente a perseguire ovunque in città.
LIBERTÀ VIGILATA
La separazione tra partecipazione e decisione è testimoniata anche dai patti di collaborazione, ideati per dare ai cittadini la possibilità di intervenire nella cura e nella rigenerazione di beni e spazi comuni. Per comprenderne la funzione, è utile mettere a confronto i principi basilari di questo strumento di partecipazione con alcune decisioni dell’amministrazione comunale che le contraddicono.
Il regolamento che disciplina i patti stabilisce che «Al fine di ottimizzare o di integrare l’offerta di servizi pubblici o di offrire risposta alla emersione di nuovi bisogni sociali, il Comune favorisce il coinvolgimento diretto dell’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione, infrastrutturazione ed erogazione». Proviamo a leggere questo passaggio alla luce di quanto accaduto in un campo dei servizi pubblici particolarmente importante in città, quello delle biblioteche. Alla fine del 2016, senza darne alcuna pubblicità, il Comune avvia l’esternalizzazione della biblioteca di quartiere “Lame-Malservisi”, cedendo interamente la gestione a una cooperativa.
Di fronte alle proteste dei cittadini, l’amministrazione comunale oppone argomenti mutevoli e contraddittori, senza cedere di un millimetro rispetto alla scelta di una sostanziale privatizzazione e promettendo (naturalmente) un percorso partecipativo, purché – secondo un copione ormai ben noto – non mettesse in discussione la decisione. Ecco quindi che l’obiettivo di coinvolgere «l’utente finale di un servizio nel suo processo di progettazione» perde ogni connotato potenzialmente positivo e viene sterilizzato all’interno di un processo nel quale la “progettazione” altro non è se non la cogestione di scelte già prese.
Il fatto che la partecipazione amministrata dall’alto, incoraggiata da dispositivi istituzionali, venga utilizzata per osteggiare la partecipazione praticata in modo autonomo è ancora più evidente nel capitolo dedicato agli spazi: «Il patto di collaborazione può avere a oggetto la gestione condivisa di uno spazio pubblico. I cittadini attivi si prendono cura dello spazio, per un periodo predefinito, per realizzarvi tutti gli interventi e le attività indicate nel patto». Ciò presuppone che gli spazi pubblici siano realmente messi a disposizione della cittadinanza. Ma la storia recente racconta tutt’altro.
Nell’ottobre 2015 la polizia – su richiesta del Comune – sgombera il collettivo Atlantide dai locali di proprietà comunale di Porta Santo Stefano, concessi sedici anni prima. Nel luglio 2017 è la volta dello storico circolo Arci Guernelli, sgomberato dalla polizia senza alcun preavviso in occasione degli interventi di ristrutturazione dei palazzi di edilizia popolare gestiti dall’Acer nei quali ha sede. (Occorrerà quasi un anno per rientrare in possesso dei locali arbitrariamente sottratti). Nell’agosto dello stesso anno viene sgomberata con la forza l’ex Caserma Masini da tempo abbandonata, occupata cinque anni prima dal collettivo Làbas e diventata un punto di riferimento per il quartiere anche per la presenza di uno dei mercati contadini di “Campi aperti”.
Al suo posto, secondo le previsioni del Piano operativo comunale (Poc), sorgeranno abitazioni e un albergo di lusso (ma a quattro anni di distanza lo spazio è ancora vuoto). Nell’agosto 2019 il Comune fa sgomberare dalla polizia, con tanto di ruspa al seguito e plauso del Ministro dell’Interno Salvini, l’XM24, spazio autogestito presso i locali di proprietà comunale dell’ex mercato ortofrutticolo, il cui uso era stato concesso nel 2002. Il copione è replicato nel gennaio 2020, quando viene sgomberata l’ex Caserma Sani occupata due mesi prima dagli attivisti dell’XM24 rimasti senza spazio. In quel luogo abbandonato da anni verranno costruiti nuovi palazzi, sacrificando anche gran parte del parco.
(Max Cavallari)
La politica intorno agli spazi pubblici si muove tra la repressione delle forme di autogestione (comprese quelle originariamente autorizzate dalla stessa amministrazione comunale) e la privatizzazione. Nessuna forma di partecipazione era stata prevista per decidere la destinazione dell’immensa area verde denominata Prati di Caprara, dove il Comune aveva l’intenzione di realizzare 1.300 appartamenti e un outlet della moda. Sono stati i cittadini raccolti nel Comitato Rigenerazione No Speculazione a dare battaglia, ad organizzare un percorso partecipativo autogestito ed a scongiurare (si spera in modo definitivo) la distruzione del bosco urbano.
E non esiste alcun piano di coinvolgimento dei cittadini intorno al riuso delle decine di spazi ed edifici di proprietà pubblica (tra cui grandi aree militari) abbandonati da decenni e destinati ad alimentare gli appetiti delle imprese di costruzione.
Tutto questo mette in luce quale sia, nella realtà, il rapporto tra i patti di collaborazione e la gestione degli spazi pubblici. In sostanza, ai cittadini è concesso di esercitare la propria azione solo su spazi piccoli e interstiziali, mentre sui grandi spazi – la cui trasformazione cambierà in modo radicale il volto della città alterandone la struttura urbanistica e sociale – non hanno diritto di parola. È questo che emerge con chiarezza sfogliando l’elenco dei patti siglati con l’amministrazione comunale.
Ed emerge anche la mancanza di un tessuto connettivo tra i progetti; come nel caso del bilancio partecipativo, i cittadini sono sollecitati a prendersi cura esclusivamente di aspetti che hanno rilevanza in un contesto ristretto. In questo modo, le pratiche su scala micro-locale non mettono i loro attori nelle condizioni di leggere le problematiche della città e generare un allargamento di prospettiva. La combinazione tra queste due limitazioni rende i patti di collaborazione una semplice amministrazione dell’esistente. In qualche caso potranno produrre esiti originali, ma nel complesso verranno sterilizzati da un’ideologia della partecipazione che, mentre predica l’iniziativa autonoma e l’immaginazione, amministra l’omologazione e il controllo.
IERI E OGGI
Questa struttura della partecipazione rappresenta una frattura rispetto alla tradizione amministrativa della città, una frattura che ha origini lontane. Bisogna risalire agli anni Sessanta per rintracciare un modello radicalmente diverso. Nel 1963 vennero istituiti i quartieri, prima esperienza di decentramento amministrativo in Italia. Il dibattito che precedette e poi accompagnò la prima fase di sperimentazione – al quale parteciparono attivamente comunisti, socialisti e cattolici di area dossettiana – era incentrato sul ruolo che le nuove istituzioni avrebbero dovuto svolgere per responsabilizzare i cittadini, nella convinzione – da tutti condivisa – che questo non sarebbe accaduto senza una ristrutturazione dei processi decisionali.
Il decentramento, in sostanza, doveva tradursi non solo nella dislocazione territoriale dei servizi, ma anche – e soprattutto – in un vero e proprio trasferimento di poteri. I nuovi quartieri – secondo l’opinione del primo assessore al decentramento, il socialista ed ex azionista Pietro Crocioni – dovevano diventare gli organi del dissenso, perché solo l’esercizio diffuso del dissenso in tutte le articolazioni della città avrebbe garantito un rapporto fecondo, non gerarchico e non paternalista, con gli organi centrali dell’amministrazione comunale.
Quel processo si intrecciò con la nascita delle forme di gestione sociale delle scuole, di cui furono protagonisti l’assessore all’istruzione Ettore Tarozzi e Bruno Ciari, maestro elementare, tra i fondatori del Movimento di cooperazione educativa, chiamato a dirigere i servizi scolastici nel 1966. Nel suo breve periodo bolognese (interrotto dalla morte prematura nel 1970), Ciari avviò la scuola a tempo pieno, luogo in cui venne sperimentato l’intreccio tra il progetto pedagogico e la partecipazione dei cittadini al governo della scuola. Furono gli anni dei Comitati genitori-insegnanti, la cui azione era costruita intorno al concetto di autogestione.
Non è solo una coincidenza temporale il fatto che, nello stesso periodo, fermenti analoghi attraversassero il dibattito intorno al tema della salute. Il contributo principale venne da Giulio Maccacaro, uno dei fondatori del movimento “Medicina democratica”, che nel 1972 tracciò le linee guida per l’organizzazione delle unità sanitarie locali (che avrebbero costituito il nucleo del servizio sanitario nazionale istituito con la riforma del 1978) evidenziando la stretta connessione tra partecipazione e salute.
La partecipazione – sosteneva – deve essere il fondamento del diritto di cittadinanza, non l’indicatore di un generico democraticismo. Ma questo diritto “non può essere conferito che dai partecipanti stessi, perché la partecipazione nasce proprio in quel momento – che può durare un’epoca – in cui una comunità oggettiva diventa comunità soggettiva”. Al centro, ancora una volta, sono i temi dell’autogestione, dell’autogoverno e dell’articolazione dei rapporti tra i cittadini – singoli e associati – e le istituzioni.
Maccacaro, inoltre, affrontò una questione cruciale, ovvero il pericolo del predominio della tecnica, di fronte alla quale i cittadini – non informati o non “competenti” – dovrebbero cedere il passo a un ceto specialistico che si autorappresenta come unico soggetto legittimato a decidere nel modo “giusto”.
È un argomento che ritroviamo in varie forme in tutti i processi partecipativi, e in particolare in quelli riguardanti le grandi opere pubbliche. «Il potere sovrastante si vale sempre di questa appropriazione” – scriveva Maccacaro – “e tende, pertanto, a enfatizzare le necessità tecnologiche di quella delega: il potere di base deve riaffermare il primato delle sue necessità politiche e chiedere una tecnologia alternativa».
Il movimento No Tav della Val di Susa è un buon esempio di attuazione di questo principio. Quel movimento, infatti, è nato e si è sviluppato sulla base di una “pedagogia dal basso”: i cittadini hanno formato se stessi, hanno studiato e sviluppato un sapere tecnico in grado di competere con quello ufficiale, hanno rivendicato – esattamente come auspicava Maccacaro – la priorità delle necessità politiche di un’intera comunità rispetto alle necessità “tecnologiche”.
(Riccardo Carraro)
È un’esperienza importante, perché mostra possibilità di intervento in un contesto storico profondamente mutato. Il patrimonio formato intorno al tema della partecipazione tra gli anni sessanta e la metà degli anni settanta – infatti – è andato disperso. Le ragioni, evidentemente, non sono esclusivamente locali. Quel periodo era segnato in tutto il paese da un grado elevato di conflittualità sociale e dall’azione di movimenti di massa. La composizione sociale del paese e il clima politico sono, oggi, completamente differenti, e radicalmente diversa è la cultura politica del partito che ha raccolto l’eredità della principale organizzazione della sinistra italiana.
È una cultura che nega il conflitto, senza comprendere che si tratta di una componente ineliminabile delle dinamiche sociali e che la sua assenza può corrodere la coesione sociale. La partecipazione si nutre del conflitto, gli strumenti della partecipazione istituzionalizzata descritti nei paragrafi precedenti si basano – al contrario – sulla sua rimozione.
CENTRALIZZARE E ISTITUZIONALIZZARE
La mutazione del modello partecipativo bolognese ha inizio molto tempo fa. I fatti del ‘77 hanno sicuramente determinato una cesura – non ancora adeguatamente studiata – anche su questo terreno. L’incapacità degli amministratori locali dell’epoca di comprendere le forme nuove di partecipazione alla politica che premevano alle porte delle istituzioni ha contribuito alla chiusura a riccio verso il concetto di autogestione, parola scomparsa dal vocabolario di chi si è avvicendato al governo della città negli ultimi quarant’anni.
A partire dagli anni Ottanta, questa mutazione si è strutturata intorno a tre assi principali. Il primo è la centralizzazione. Il sistema dei quartieri è stato completamente smantellato da due riforme – nel 1985 e nel 2015 – che ne hanno progressivamente ridotto il numero (nel 1966 erano diciotto, oggi sono sei) e mutato le funzioni, fino a ridurli a semplici organi consultivi privi di poteri di indirizzo e di gestione.
Il secondo è l’eccesso di istituzionalizzazione, che prende forma attraverso una stratificazione di norme, procedure e regolamenti utili ad alimentare la retorica della partecipazione piuttosto che la sua pratica effettiva, come aveva evidenziato Achille Ardigò: «[…] quanto più sono cresciute, non solo a Bologna, le istituzionalizzazioni della partecipazione popolare, tanto meno si è affermata la partecipazione della gente».
D’altra parte, i limiti di questo apparato istituzionale sono fissati in modo chiaro proprio dalle stesse norme che ne sono alle base. Basti pensare che la legge della Regione Emilia Romagna sulla partecipazione stabilisce che gli enti responsabili della decisione finale non hanno alcun obbligo di recepire le conclusioni dei procedimenti partecipativi, decretandone in tal modo l’inutilità.
Il terzo asse è la negazione del dissenso, che si manifesta in forme molteplici. Una di esse sta nell’uso ambiguo del concetto di “legalità”, maschera dietro la quale il potere politico si nasconde per negare legittimità a modalità libere e autonome di organizzazione sociale senza assumere la responsabilità di questa esclusione. È su questo terreno che – come abbiamo visto – si è sviluppato un intreccio pericoloso tra Comune, Questura e Procura, che – oltre agli episodi ricordati – ha prodotto anche, nell’ottobre 2015, il violento sgombero della palazzina ex-Telecom, dove per circa un anno era stata condotta una esperienza di autogestione da parte di circa 200 immigrati che avevano ricavato piccoli appartamenti da uno stabile in disuso. Oggi quel luogo è stato trasformato in uno studentato di lusso. L’anomalia è stata normalizzata, con il beneplacito del Comune.
La negazione del dissenso passa anche attraverso il disconoscimento delle forme di democrazia diretta previste dallo Statuto comunale. Nel 2013 il Comitato articolo 33 promosse un referendum contro il finanziamento del Comune alle scuole private. Nonostante uno schieramento politico e mediatico impressionante a favore del mantenimento, il 59% dei votanti si espresse per l’abolizione, ma l’esito è stato completamente ignorato dall’amministrazione comunale.
(Revol Web da Flickr)
Tutti questi aspetti vanno a comporre un quadro nel quale il significato originario della parola “partecipazione” è ormai smarrito.
La cultura politica degli amministratori locali è ostile alle forme di autogestione, a tutto ciò che sfugge a una formalizzazione procedurale e istituzionale, ai movimenti spontanei e imprevisti.
Il sistema della partecipazione è concepito soprattutto come una macchina per la produzione di consenso, ed è strutturato intorno a un complesso di dispositivi che in alcuni casi imbrigliano le idee, in altri legittimano scelte adottate al di fuori dei luoghi deputati alla rappresentanza democratica. Una partecipazione senza potere a sostegno di un potere senza partecipazione.