di Franco Ferrari
In un editoriale pubblicato sul giornale che dirige, Norma Rangeri ha richiamato l’idea, che sarebbe diffusa tra l’opinione pubblica democratica, secondo la quale l’Italia è un “paese di destra”.
Questo tipo di convinzione è spesso servita a giustificare un crescente moderatismo della sinistra per potersi alleare ad un centro sempre più sfuggente e sempre aderente, se non promotore, della più rigida ortodossia neoliberista.
La tesi ripresa dalla direttrice del Manifesto ha suscitato qualche reazione polemica. Non voglio aggiungermi ad essa, quanto provare a definire un approccio alla questione un po’ più complesso.
È indubbio che al momento i sondaggi, ma anche le recenti scadenze elettorali, indicano un consenso alle forze di destra vicino o di poco inferiore al 50% dei potenziali votanti. Questa dimensione non è in realtà un fatto inedito. A partire dall’introduzione del sistema elettorale maggioritario, frutto della crisi del vecchio sistema politico ed in particolare dei due assi sui quali si reggeva, la Democrazia Cristiana al centro il PCI a sinistra, la polarizzazione elettorale ha fatto sì che buona parte del consenso che andava alla DC, come anche ai partiti minori suoi tradizionali alleati, si sia allineato a destra.
Le principali modifiche, in questa parte del sistema politico, hanno riguardato gli equilibri interni. Il centro-destra si è sempre strutturato attorno a tre correnti ideologiche: un liberismo-populismo (Forza Italia), un nazional-populismo territoriale (Lega), un conservatorismo reazionario di derivazione neofascista (AN prima, FdI oggi).
Questa coalizione ha retto al declino della prima generazione di leader (Berlusconi, Bossi, Fini), riuscendo in almeno due delle tre incarnazioni a far emergere nuove leadership (Salvini, Meloni). Su alcuni temi, ma non tutti, il cambiamento di equilibri interni alla destra ha portato ad una certa radicalizzazione. Ma molti delle questioni che oggi fanno la fortuna della Meloni, come prima quella di Salvini, sono stati assunti e introdotti nel dibattito politico da Silvio Berlusconi. Questo non implica che si debbano sottovalutare gli effetti dell’ascesa di Fratelli d’Italia, ma nemmeno che si debbano cancellare gli elementi di continuità tra la fase berlusconiana e quelle successive, ridando verginità a Forza Italia.
L’unico momento significativo di crisi di consenso della destra è avvenuto con l’inizio del declino dell’egemonia berlusconiana e l’ascesa del Movimento 5 Stelle che ha, per un breve periodo, saputo conquistare un pezzo importante di elettorato in provenienza dal vecchio Polo delle Libertà, soprattutto al sud. Ma il tentativo di raggruppare una coalizione elettorale trasversale che potesse unire indifferentemente elettori mossi da motivazioni tipicamente di destra, con altri mossi da motivazione tipicamente di sinistra, non ha funzionato. Quindi quella parte di elettorato proveniente da destra è tornato verso i lidi originari, mentre lo stesso non è avvenuto per coloro che provenivano da sinistra.
Dal punto di vista strettamente elettorale, quindi si può ritenere che il livello elevato di consenso per le formazioni di destra si sia consolidato con l’introduzione del sistema maggioritario, non scalfito da sistemi più proporzionalisti. Ma c’è un altro livello a cui andrebbe portata l’analisi, ovvero l’intreccio tra dimensioni del consenso a destra e le contraddizioni aperte nel capitalismo italiano alla luce della nuova fase che si è originata con la sconfitta operaia alla FIAT all’inizio degli anni ’80. Questa a sua volta, chiudeva un ciclo, nel quale indubbiamente vi fu uno spostamento a sinistra, che si era aperto con la mobilitazione di piazza, antifascista ma non solo, che fece cadere il Governo Tambroni.
La fase di egemonia neoliberista che ha dominato (con qualche inflessione a destra o a sinistra) dal ’92 al 2008, è entrata in crisi con gli effetti della recessione globale che ha avuto origine nello scoppio della bolla immobiliare negli Stati Uniti. Le dure politiche di austerità, applicate dal Governo Monti, hanno aggravato una condizione di stagnazione economica nella quale l’Italia si trovava a veleggiare dall’inizio del nuovo millennio. Quali conseguenze, nel mutamento della composizione sociale, nella dislocazione non solo economica ma anche di identità e di prospettiva di diversi ambienti, settori e classi, questa abbia prodotto, dovrebbe essere oggetto di analisi approfondite.
Quando si parla di stagnazione, misurata dall’andamento della ricchezza prodotto in confronto a quanto avvenuto in altri paesi europei, non significa che tutto sia rimasto com’era, ma che le contraddizioni di fondo si sono dislocate su terreni in parte modificati.
La miscela che ne deriva è dovuta alle mancate promesse affidate alla globalizzazione, al declino di settori di ceto medio, alla divaricazione del lavoro dipendente tra settori relativamente salvaguardati (pubblici e privati) e altri che hanno subito un accrescimento brutale dei livelli di sfruttamento, scaricato però in misura significativa sugli immigrati, insieme al permanere di elementi strutturali del capitalismo italiano (divaricazione nord-sud, basso tasso di occupazione soprattutto femminile, assenza in alcuni settori tecnologici avanzati, sottodimensionamento delle imprese, peso parassitario di varie forme di rendita, ecc.), sono tutti elementi che costituiscono il sottofondo strutturale che condiziona orientamenti ideologici e collocamento politico.
Per non cadere in una posizione deterministica (gli elementi strutturali producono meccanicamente gli orientamenti ideologici ed elettorali) o di pura passività (l’Italia è un paese di destra e quindi per conquistare il consenso bisogna accrescere il tasso di moderatismo e entrare in alleanze nelle quali si conta sempre meno) occorre introdurre nell’analisi il livello dell’azione dei soggetti politici e quello del “clima” culturale e ideologico.
Non c’è dubbio che in Italia abbiamo assistito ad un singolare paradosso. Il crollo dei paesi del socialismo burocratico e il reinsediamento del capitalismo in Urss e nell’est Europa hanno configurato una serie di dinamiche politiche che si sono riprodotte in termini abbastanza simili anche in Italia. Trasformazione in senso liberale degli ex-comunisti che hanno subito direttamente la crisi di egemonia del capitalismo neoliberale degli anni ’80 e ’90, emersione di una nuova destra dai tratti populisti e con qualche pulsione autoritaria, declino e quasi scomparsa di forze che si richiamano alla tradizione comunista, senza che siano emersi nuove soggetti politici di sinistra radicale.
La separazione fra forze democratiche, anche conservatrici, e la destra neofascista che è stata frutto della mobilitazione del 1960 (gli anni ’50, va ricordato, furono assai diversi) si è indebolita con il periodo craxiano, quando è avvenuto il primo “sdoganamento” dell’MSI e il fronte ideologico principale si è spostato in direzione dell’anticomunismo. Se si guarda al Parlamento attuale, si può ritenere che, se va bene, una metà di esso si possa dichiarare “antifascista” (più o meno coerentemente), ma si può anche valutare, senza timore di sbagliare troppo, che la quasi totalità non abbia particolari remore a proclamarsi anticomunista. Lo stesso PD, com’è noto, ha formalmente votato nel Parlamento europeo la mozione che equipara comunisti e nazisti (il fascismo non è citato).
La strategia perseguita dalle forze dominanti nel campo del centro-sinistra e della sinistra (confluite in gran parte nell’attuale PD, un partito di sinistra liberale contenente minoranze socialdemocratiche) di accompagnamento delle tendenze del capitalismo neoliberale, che ne ha fatto in buona parte il rappresentante dei “vincenti” o presunti tali della globalizzazione, si è rivelata del tutto inadeguata anche a contrastare l’insediamento di uno stabile consenso di destra. Da parte sua la sinistra radicale, per ragioni, come si diceva un tempo, oggettive e soggettive non è riuscita a contrastare validamente l’egemonia neoliberale (o socialdemocratica molto soft) sul campo progressista.
Se questo, sommariamente delineato, è il contesto nel quale si sono rafforzate le forze politiche della destra radicale, resta aperto il problema di come aprire un nuovo ciclo politico. Il punto di partenza credo sia l’analisi delle contraddizioni oggettive del capitalismo italiano (senza la quale una prefigurazione di una “alternativa di società” si colloca su un terreno puramente ideologico e propagandistico). Così come da queste è possibile individuare una potenziale maggioranza sociologica e di correnti ideali che si aggreghi su un programma di cambiamento. Questa potenziale coalizione ha bisogno di una strategia politica (senza la quale ogni ipotesi astratta di “unificazione” risulta inefficace) e di uno strumento politico antiliberista di massa.
Più che discutere in astratto se l’Italia sia più o meno di destra per vocazione storica e carattere nazionale, sarebbe forse utile compiere uno sforzo di analisi e di comprensione dell’avversario (profilo ideologico, agenda politica, base di classe e di massa, forme di comunicazione, contraddizioni sulle quali intervenire), senza accontentarsi di sommarie formule propagandistiche. In secondo luogo, si deve prendere atto che l’attuale configurazione del centro-sinistra (egemonia moderata, base sociale tra i “vincenti” della globalizzazione, politica intesa prioritariamente come insediamento nei luoghi di potere, ecc.) non consente nemmeno di arginare l’ascesa e la radicalizzazione della destra e che nessun significativo rivolgimento può avvenire per linee interne, tanto più a partire da strategie subalterne.
L’Italia non è destinata ad essere di destra, ma lo diventa se non c’è in campo una sinistra che animi una nuova coalizione sociale, con rinnovate forme d’azione politica, una differente agenda di priorità e una strategia comunicativa adeguata a parlare alle classi popolari.