Le elezioni peruviane hanno generato una vera e propria isteria tra le élites di Lima e una campagna di demonizzazione del candidato proveniente da Cajamarca. Con la vittoria di Castillo, lo scenario è incerto, ma questa incertezza ha ben poco a che vedere con i fantasmi dell’anticomunismo zombie che dilaga in tutto il Paese

Mentre pubblichiamo, siamo ancora in attesa della proclamazione di Pedro Castillo, che ha vinto le elezioni peruviane con 44.058 voti in più della candidata di estrema destra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore, che non ha riconosciuto il risultato e ha fatto appello chiedendo l’annullamento di migliaia di voti per Pedro Castillo. Dopo le minacce golpiste e le enormi manifestazioni in difesa della democrazia, il Tribunale Elettorale sta verificando le richieste di annullamento ed al termine di questo procedimento sarà proclamato il presidente (nota della redazione)

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Le ultime elezioni peruviane sono, forse, quanto di più simile alla «tempesta sulle Ande» annunciata da Luis E. Valcárcel nel suo libro Tempestad en los Andes, ormai un classico della letteratura, pubblicato nel 1927 con un prologo di José Carlos Mariátegui. Attirato dall’idea del «mito», Mariátegui scriveva: «E non importa che per alcuni siano i fatti a creare la profezia e per altri la profezia a creare i fatti». Quello che è successo lo scorso 6 giugno non è di certo un’insurrezione indigena come quella che aveva immaginato Valcárcel, né come quella che aveva immaginato Mariátegui, teorico socialista. Ma è stata un’insurrezione elettorale del Perù andino profondo che si è ripercossa in tutto il Paese.

Pedro Castillo Terrones, lungi dall’essere un messia, ha fatto la sua comparsa nella disputa elettorale «dal nulla», come se in realtà lo fosse. Grazie ai risultati del 13 giugno, è vicino a diventare il presidente più improbabile di sempre.

Non perché sia un outsider – il Paese ne è pieno, da quando il chino Alberto Fujimori conquistò il potere nel 1990 dopo aver sconfitto Mario Vargas Llosa – ma per le sue origini di classe: si tratta di un contadino della Cajamarca che, senza mai abbandonare il forte vincolo con la terra, ha superato varie difficoltà ed è diventato un insegnante di scuola primaria di un villaggio rurale; nei dibattiti presidenziali chiudeva spesso i suoi interventi con il tormentone «parola di maestro».

Dall’insegnamento, Castillo è balzato sulla scena nazionale nel 2017, grazie a un combattivo sciopero degli insegnanti contro la direzione sindacale. Un recente documentario, intitolato appunto El profesor, fornisce diversi dettagli sulla sua persona, la sua famiglia e il contesto in cui si muove. A differenza di Valcárcel, il cui indigenismo si inseriva nella disputa tra élites– la Cuzco andina e la Lima «bianca».

Castillo viene da un nord molto più marginale in termini di geopolitica peruviana. Ha un’identità «provinciale» e contadina, più che strettamente indigena. Da lì è poi riuscito a conquistare l’elettorato andino meridionale e a guadagnarsi, anche se in misura minore, il voto popolare di Lima.

Per questo, quando Keiko Fujimori ha accolto la sfida accettando di svolgere il primo dibattito elettorale a Chota, città della Cajamarca, dove ha detto con disgusto: «Sono dovuta venire fin qui», era già chiaro che quello sarebbe stato un punto di non ritorno. Castillo è riuscito a portare la politica fuori da Lima e negli angoli più remoti e isolati del Paese, che durante la sua campagna ha girato in lungo e in largo con una matita gigante tra le mani.

L’irruzione di Castillo al primo turno – con quasi il 19% dei voti – ha generato una vera e propria isteria nei settori benestanti della capitale. Che, in linea con l’attuale moda dell’anticomunismo zombie, ha preso forma in un generalizzato «No al comunismo», reso esplicito persino attraverso giganteschi manifesti per le strade. Neanche il razzismo è mancato. Il Perù sembra avere meno remore a esprimerlo in pubblico rispetto ai vicini Ecuador o Bolivia. Per esempio, il «polemico» giornalista Beto Ortiz ha cacciato la deputata di Perú Libre Zaira Arias dal suo programma, dimostrando che il «politicamente corretto» non ha raggiunto i settori delle élites di Lima. L’ha poi chiamata «fruttivendola» e si è travestito da indio – con il suo solito istrionismo – per dare un sardonico benvenuto al «nuovo Perù» di Pedro Castillo.

Durante la corsa alla presidenza, Castillo è stato anche vittima costante del terruqueo (accusa di legami con il terrorismo) per le alleanze sindacali strette durante lo sciopero degli insegnanti e delle sue stesse gaffes, in diverse interviste, a causa dell’inesperienza elettorale.

Come ha scritto il politologo Alberto Vergara sul “New York Times”, «coloro che hanno usato la politica della paura in modo più infido sono stati quelli della fazione fujimorista, i ceti più alti e i grandi media. Gli imprenditori hanno minacciato di licenziare i lavoratori se Castillo avesse vinto; i cittadini medi hanno giurato di togliere il lavoro ai propri domestici se avessero votato per Perú Libre; le strade erano piene di manifesti e cartelli particolarmente vistosi, pagati dagli imprenditori, che avvertivano di un’imminente invasione comunista». Anche Mario Vargas Llosa ha abbandonato il suo tradizionale antifujimorismo – per il quale aveva persino invitato a votare per Ollanta Humala nel 2011 – e ha deciso di dare una possibilità a un candidato con il cognome Fujimori.

Ma Castillo è lontano da una cultura comunista. Ha militato per diversi anni nella politica locale sotto la bandiera di Perú Posible, il partito dell’ex presidente Alejandro Toledo e, anche se si è candidato con Perú Libre, nato con il nome di Perú Libertario, di fatto non ne fa parte. Perú Libre si definisce «marxista-leninista-mariateguista», ma molti dei suoi candidati negano di essere «comunisti».

Il leader del partito, Vladimir Cerrón, ha definito il movimento schierato dietro Castillo come una «sinistra provinciale», in opposizione alla sinistra «radical-chic» di Lima. Castillo è un cattolico «evangelico compatibile»: sua moglie e sua figlia sono praticanti della Chiesa del Nazareno, evangelica, e lui stesso si unisce alle loro preghiere. In campagna elettorale ha più volte preso posizione contro l’aborto o il matrimonio egualitario, anche se molti dei suoi tecnici e consiglieri provengono dalla sinistra cittadina, guidata da Verónika Mendoza, che ha idee sociali progressiste. Bisognerà vedere come queste tendenze coesisteranno nel futuro governo di Castillo, che pare non avrà vita facile.

Castillo si definisce anche rondero, termine che fa riferimento alle ronde contadine create nella Cajamarca negli anni ’70 per contrastare il furto di bestiame e poi risorte in tutto il Paese durante gli anni ’80 per affrontare i guerriglieri di Sendero Luminoso [la formazione guerrigliera marxista leninista peruviana, ndr], ma che spesso ricoprono il ruolo di autorità nelle campagne.

L’incertezza di un futuro governo Castillo non ha a che vedere, in realtà, con la possibilità di un’esperienza comunista, di qualsiasi natura essa sia. Né sembra probabile una «venezuelanizzazione» come quella che annunciano i suoi detrattori.

Le forze armate non sembrano facilmente sussumibili, il peso parlamentare del castillismo è scarso, le élites economiche sono più resistenti che in un Paese puramente petrolifero come il Venezuela e l’organizzazione strutturale del movimento sociale non anticipa un «nazionalismo rivoluzionario» di tipo chavista o cubano.

Le dichiarazioni del «prof Castillo» mostrano un certo disprezzo plebeo per le istituzioni, poca chiarezza sulla direzione del governo e una visione della delinquenza come un fenomeno da reprimere – prospettiva che promuove l’estensione della «giustizia rondera» al resto del Perù, in cui spesso sono previsti diversi tipi di pene per chi commette un reato – e rivelano dure prese di posizione, come si è visto nei dibattiti elettorali.

La presenza al governo dell’«altra sinistra», cittadina e cosmopolita, può funzionare come un equilibrio virtuoso tra la fazione progressista e quella popolare, ma sarà anche una fonte di tensioni interne.

Alcuni paragonano Castillo a Evo Morales. I due hanno senza dubbio simbologie e storie in comune, ma hanno anche delle differenze. Una è puramente aneddotica: invece digonfiare i propri successi in chiave meritocratica, Morales sostiene di non aver finito la scuola superiore (anche se alcuni dei suoi insegnanti sostengono il contrario). L’altra è più importante ai fini del governo: l’ex presidente boliviano è arrivato al Palacio Quemado nel 2006, dopo otto anni a capo del blocco parlamentare del Movimiento al Socialismo (MAS) e l’esperienza di una campagna presidenziale nel 2002, ma non solo, ha anche alle spalle una confederazione di movimenti sociali con un forte peso territoriale, articolata nel MAS. Castillo ha, per ora, un partito che non è il suo e un appoggio socioelettorale ancora diffuso.

La «paura bianca»nei confronti di Castillo è legata, più che a un reale pericolo di comunismo, alla prospettiva di perdere il potere in un Paese dove le élites erano riuscite a evitare uno spostamento a sinistra cooptando chi aveva vinto con programmi riformisti, come Ollanta Humala.

Per dirla in modo più «all’antica»: la «paura bianca»risiede nella prospettiva di un indebolimento del gamonalismo, termine con cui in Perù veniva chiamato il sistema di potere architettato dai proprietari hacendados prima della riforma agraria e che è perdurato sotto altre forme dopo il 1969.

Nessuno sa se le élites riusciranno a cooptare anche Castillo, ma in questo caso c’è un abisso di classe più profondo che in passato, e lo scenario è, in generale, meno prevedibile. La «sorpresa Castillo» è troppo recente e per molti versi il «prof» è uno sconosciuto anche agli occhi dei suoi futuri collaboratori.

Con tutta probabilità, la tempesta elettorale ne farà scoppiare altre, se le élites vogliono continuare a governare come si sono abituate a fare.

Mentre pubblichiamo, siamo ancora in attesa della proclamazione di Pedro Castillo, che ha vinto le elezioni peruviane con 44.058 voti in più della candidata di estrema destra Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore, che non ha riconosciuto il risultato e ha fatto appello chiedendo l’annullamento di migliaia di voti per Pedro Castillo. Dopo le minacce golpiste e le enormi manifestazioni in difesa della democrazia, il Tribunale Elettorale sta verificando le richieste di annullamento ed al termine di questo procedimento sarà proclamato il presidente (nota della redazione)

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Le ultime elezioni peruviane sono, forse, quanto di più simile alla «tempesta sulle Ande» annunciata da Luis E. Valcárcel nel suo libro Tempestad en los Andes, ormai un classico della letteratura, pubblicato nel 1927 con un prologo di José Carlos Mariátegui. Attirato dall’idea del «mito», Mariátegui scriveva: «E non importa che per alcuni siano i fatti a creare la profezia e per altri la profezia a creare i fatti». Quello che è successo lo scorso 6 giugno non è di certo un’insurrezione indigena come quella che aveva immaginato Valcárcel, né come quella che aveva immaginato Mariátegui, teorico socialista. Ma è stata un’insurrezione elettorale del Perù andino profondo che si è ripercossa in tutto il Paese.

Pedro Castillo Terrones, lungi dall’essere un messia, ha fatto la sua comparsa nella disputa elettorale «dal nulla», come se in realtà lo fosse. Grazie ai risultati del 13 giugno, è vicino a diventare il presidente più improbabile di sempre.

Non perché sia un outsider – il Paese ne è pieno, da quando il chino Alberto Fujimori conquistò il potere nel 1990 dopo aver sconfitto Mario Vargas Llosa – ma per le sue origini di classe: si tratta di un contadino della Cajamarca che, senza mai abbandonare il forte vincolo con la terra, ha superato varie difficoltà ed è diventato un insegnante di scuola primaria di un villaggio rurale; nei dibattiti presidenziali chiudeva spesso i suoi interventi con il tormentone «parola di maestro».

Dall’insegnamento, Castillo è balzato sulla scena nazionale nel 2017, grazie a un combattivo sciopero degli insegnanti contro la direzione sindacale. Un recente documentario, intitolato appunto El profesor, fornisce diversi dettagli sulla sua persona, la sua famiglia e il contesto in cui si muove. A differenza di Valcárcel, il cui indigenismo si inseriva nella disputa tra élites– la Cuzco andina e la Lima «bianca».

Castillo viene da un nord molto più marginale in termini di geopolitica peruviana. Ha un’identità «provinciale» e contadina, più che strettamente indigena. Da lì è poi riuscito a conquistare l’elettorato andino meridionale e a guadagnarsi, anche se in misura minore, il voto popolare di Lima.

Per questo, quando Keiko Fujimori ha accolto la sfida accettando di svolgere il primo dibattito elettorale a Chota, città della Cajamarca, dove ha detto con disgusto: «Sono dovuta venire fin qui», era già chiaro che quello sarebbe stato un punto di non ritorno. Castillo è riuscito a portare la politica fuori da Lima e negli angoli più remoti e isolati del Paese, che durante la sua campagna ha girato in lungo e in largo con una matita gigante tra le mani.

L’irruzione di Castillo al primo turno – con quasi il 19% dei voti – ha generato una vera e propria isteria nei settori benestanti della capitale. Che, in linea con l’attuale moda dell’anticomunismo zombie, ha preso forma in un generalizzato «No al comunismo», reso esplicito persino attraverso giganteschi manifesti per le strade. Neanche il razzismo è mancato. Il Perù sembra avere meno remore a esprimerlo in pubblico rispetto ai vicini Ecuador o Bolivia. Per esempio, il «polemico» giornalista Beto Ortiz ha cacciato la deputata di Perú Libre Zaira Arias dal suo programma, dimostrando che il «politicamente corretto» non ha raggiunto i settori delle élites di Lima. L’ha poi chiamata «fruttivendola» e si è travestito da indio – con il suo solito istrionismo – per dare un sardonico benvenuto al «nuovo Perù» di Pedro Castillo.

Durante la corsa alla presidenza, Castillo è stato anche vittima costante del terruqueo (accusa di legami con il terrorismo) per le alleanze sindacali strette durante lo sciopero degli insegnanti e delle sue stesse gaffes, in diverse interviste, a causa dell’inesperienza elettorale.

Come ha scritto il politologo Alberto Vergara sul “New York Times”, «coloro che hanno usato la politica della paura in modo più infido sono stati quelli della fazione fujimorista, i ceti più alti e i grandi media. Gli imprenditori hanno minacciato di licenziare i lavoratori se Castillo avesse vinto; i cittadini medi hanno giurato di togliere il lavoro ai propri domestici se avessero votato per Perú Libre; le strade erano piene di manifesti e cartelli particolarmente vistosi, pagati dagli imprenditori, che avvertivano di un’imminente invasione comunista». Anche Mario Vargas Llosa ha abbandonato il suo tradizionale antifujimorismo – per il quale aveva persino invitato a votare per Ollanta Humala nel 2011 – e ha deciso di dare una possibilità a un candidato con il cognome Fujimori.

Ma Castillo è lontano da una cultura comunista. Ha militato per diversi anni nella politica locale sotto la bandiera di Perú Posible, il partito dell’ex presidente Alejandro Toledo e, anche se si è candidato con Perú Libre, nato con il nome di Perú Libertario, di fatto non ne fa parte. Perú Libre si definisce «marxista-leninista-mariateguista», ma molti dei suoi candidati negano di essere «comunisti».

Il leader del partito, Vladimir Cerrón, ha definito il movimento schierato dietro Castillo come una «sinistra provinciale», in opposizione alla sinistra «radical-chic» di Lima. Castillo è un cattolico «evangelico compatibile»: sua moglie e sua figlia sono praticanti della Chiesa del Nazareno, evangelica, e lui stesso si unisce alle loro preghiere. In campagna elettorale ha più volte preso posizione contro l’aborto o il matrimonio egualitario, anche se molti dei suoi tecnici e consiglieri provengono dalla sinistra cittadina, guidata da Verónika Mendoza, che ha idee sociali progressiste. Bisognerà vedere come queste tendenze coesisteranno nel futuro governo di Castillo, che pare non avrà vita facile.

Castillo si definisce anche rondero, termine che fa riferimento alle ronde contadine create nella Cajamarca negli anni ’70 per contrastare il furto di bestiame e poi risorte in tutto il Paese durante gli anni ’80 per affrontare i guerriglieri di Sendero Luminoso [la formazione guerrigliera marxista leninista peruviana, ndr], ma che spesso ricoprono il ruolo di autorità nelle campagne.

L’incertezza di un futuro governo Castillo non ha a che vedere, in realtà, con la possibilità di un’esperienza comunista, di qualsiasi natura essa sia. Né sembra probabile una «venezuelanizzazione» come quella che annunciano i suoi detrattori.

Le forze armate non sembrano facilmente sussumibili, il peso parlamentare del castillismo è scarso, le élites economiche sono più resistenti che in un Paese puramente petrolifero come il Venezuela e l’organizzazione strutturale del movimento sociale non anticipa un «nazionalismo rivoluzionario» di tipo chavista o cubano.

Le dichiarazioni del «prof Castillo» mostrano un certo disprezzo plebeo per le istituzioni, poca chiarezza sulla direzione del governo e una visione della delinquenza come un fenomeno da reprimere – prospettiva che promuove l’estensione della «giustizia rondera» al resto del Perù, in cui spesso sono previsti diversi tipi di pene per chi commette un reato – e rivelano dure prese di posizione, come si è visto nei dibattiti elettorali.

La presenza al governo dell’«altra sinistra», cittadina e cosmopolita, può funzionare come un equilibrio virtuoso tra la fazione progressista e quella popolare, ma sarà anche una fonte di tensioni interne.

Alcuni paragonano Castillo a Evo Morales. I due hanno senza dubbio simbologie e storie in comune, ma hanno anche delle differenze. Una è puramente aneddotica: invece digonfiare i propri successi in chiave meritocratica, Morales sostiene di non aver finito la scuola superiore (anche se alcuni dei suoi insegnanti sostengono il contrario). L’altra è più importante ai fini del governo: l’ex presidente boliviano è arrivato al Palacio Quemado nel 2006, dopo otto anni a capo del blocco parlamentare del Movimiento al Socialismo (MAS) e l’esperienza di una campagna presidenziale nel 2002, ma non solo, ha anche alle spalle una confederazione di movimenti sociali con un forte peso territoriale, articolata nel MAS. Castillo ha, per ora, un partito che non è il suo e un appoggio socioelettorale ancora diffuso.

La «paura bianca»nei confronti di Castillo è legata, più che a un reale pericolo di comunismo, alla prospettiva di perdere il potere in un Paese dove le élites erano riuscite a evitare uno spostamento a sinistra cooptando chi aveva vinto con programmi riformisti, come Ollanta Humala.

Per dirla in modo più «all’antica»: la «paura bianca»risiede nella prospettiva di un indebolimento del gamonalismo, termine con cui in Perù veniva chiamato il sistema di potere architettato dai proprietari hacendados prima della riforma agraria e che è perdurato sotto altre forme dopo il 1969.

Nessuno sa se le élites riusciranno a cooptare anche Castillo, ma in questo caso c’è un abisso di classe più profondo che in passato, e lo scenario è, in generale, meno prevedibile. La «sorpresa Castillo» è troppo recente e per molti versi il «prof» è uno sconosciuto anche agli occhi dei suoi futuri collaboratori.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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