Dall’estradizione degli ex-brigatisti in Francia, ai fatti del G8 di Genova, alle misure giudiziarie contro il movimento No Tav, fino agli abusi di pochi giorni fa a Milano, la violenza e la repressione dello stato sembrano essere un elemento strutturale del nostro paese

Se, parafrasando Voltaire, il grado di civiltà di un Paese emerge dalle condizioni carcerarie dello stesso, la situazione nazionale appare oggi tragica. Mercoledì 30 giugno, in Piazza dell’Immacolata a Roma, Potere al Popolo ha organizzato un’iniziativa volutamente provocatoria, con Elisabetta Canitano (candidata sindaca per Potere al Popolo) e Nunzio D’Erme (Osservatorio repressione) per denunciare le condizioni detentive di Cesare Battisti, le logiche punitive di simili scelte e il relativo uso politico delle stesse.

Nei loro interventi Canitano, D’Erme e i rappresentanti di Osa, hanno sottolineato che la durezza di questa scelta parla di molti nodi e, specialmente, dell’uso arbitrario delle carceri come strumento di “umiliazione”, affidato “all’arbitrio di chi si occupa della detenzione” e usato come “strumento di punizione piuttosto che di rieducazione” oltre che, nondimeno, come “strumento di vendetta personale” e come “deterrente delle lotte”.

Partendo da questa denuncia sistemica sono stati toccati molti punti esemplari, da Battisti, alla richiesta di estradizione degli ex-brigatisti in Francia, ai fatti relativi al G8 di Genova, al trattamento repressivo che da anni opprime la Val di Susa e il movimento No Tav, fino agli abusi di pochi giorni fa a Milano, che hanno visto il verificarsi di un pestaggio arbitrario da parte delle forze dell’ordine nei confronti di un gruppo di ragazzi di colore: marginalizzazione sociale, politica e razziale disegnano le fila di una normalizzazione della violenza istituzionale, nella pratica e nel discorso pubblico, con enormi implicazioni politiche che seguono i percorsi del conflitto sociale, in un intreccio materiale e culturale.

È stata poi chiaramente rimarcata la gravità esemplare dei fatti e delle immagini legati al carcere di Santa Maria Capua Vetere che oggi ci parlano di quella che anche il giudice per le indagini preliminari, che ha disposto le 52 misure cautelari, ha definito una “orribile mattanza”.

Il punto dirimente che ha permesso di far risuonare questo dibattito in questi ultimi giorni (e anche in testate giornalistiche meno sensibili al tema), sta nella diffusione dei video, che con forza testimoniano le violenze subite dai detenuti e l’abuso di potere posto in atto, ma ci dicono anche di più, soprattutto rispetto a una rara trasparenza delle dinamiche carcerarie e dei rapporti di potere che qui si articolano.

Tutto questo, al contempo ci porta oltre, verso un problema strutturale del sistema carcerario italiano, del ruolo delle forze dell’ordine e, ancora più in generale, della logica storica, istituzionale e politica, in cui si colloca tutto ciò e che ci conduce all’interno di alcune dinamiche di continuità istituzionale italiana dentro a un problema storico sostanziale nella concettualizzazione della violenza sociale e politica dentro specifici rapporti di potere.

(immagine da commons.wikimedia.org)

Serve quindi, forse, fare un passo indietro, gettando lo sguardo all’interno di certi intrecci legati alla costruzione dello Stato repubblicano nel secondo dopoguerra e poi osservando il periodo cruciale dei lunghi anni Settanta, come espressione di molte tensioni e contraddizioni interne al sistema istituzionale e politico italiano, rappresentative di un problematico e spesso o ideologizzato o rimosso rapporto con la pratica e la rappresentazione della violenza.


CORPI SEPARATI

Le esigenze di rapida ricostruzione e l’affermazione delle forze moderate portarono al verificarsi di processi di continuità istituzionale, il cui trionfo si espletò tra 1945 e 1948: questo periodo vide la riconferma degli istituti propri del regime fascista, che divennero la spina dorsale del sistema con tanto di personale statuti e gerarchi perlopiù mantenuti.

Di fatto sin dalla formazione del primo Governo di unità nazionale, il dibattito sulla riorganizzazione dell’apparato amministrativo aveva dovuto cedere alla necessità del compromesso e di uno svelto allestimento logistico dello Stato. Sappiamo poi che il lavoro si concentrò sull’estromissione dei fascisti che ancora ricoprissero ruoli all’interno del sistema pubblico; tuttavia, il blando intervento e gli ostacoli di varia natura che vi si frapposero, resero l’epurazione inconsistente, comportando la continuità non solo delle strutture e delle regolamentazioni amministrative ma anche del personale burocratico.

Ciò accadde specie perché si investì del compito epurativo strutture e personale non ancora riformati, ma precedentemente invischiati con il Regime.

Queste continuità trovarono conferma anche all’interno degli organi dell’alta burocrazia statale, ossia della magistratura , della polizia e dell’esercito. Concentrandoci sull’amministrazione dell’ordine pubblico possiamo dire che restò uguale a se stessa, in linea con l’indirizzo affermatosi durante la prima fase transitoria; persino il testo unico fascista delle leggi di pubblica sicurezza del 1931 sopravvisse al passaggio costituzionale, con la complicità di un’interpretazione in senso restrittivo delle norme illiberali da parte della corte di Cassazione.

Il mantenimento di molte strutture amministrative e di governo strutturalmente similari e la loro ricontestualizzazione all’interno di differenti cornici socioeconomiche, facilitò la creazione di un ceto burocratico di governo legato a una cultura di potere specifica e inserito in reti clientelari invischiate negli apparati burocratici dello stato.

Un fatto significativo nell’evoluzione del fenomeno si trovò però nell’instabilità strutturale dei governi e nelle frequenti crisi che li coinvolsero, e che crearono momentanei vuoti all’interno dei gruppi di gestione del potere: in questi frangenti la contrattazione si strutturò coinvolgendo soprattutto gruppi privati e apparati statali, facilitando la creazione di situazioni dove questi ultimi potevano collegarsi anche con altri centri di potere.

Si crearono perciò dei “corpi separati” (concetto introdotto dallo storico Valerio Castronovo, che si richiama polemicamente alla concezione della separazione dei poteri) cioè apparati che possono esercitare il potere separatamente, quindi senza collegamento con altri organismi istituzionali.

Questi corpi condividono solitamente una compatta struttura piramidale interna e larghi margini di autonomia nell’esercizio delle proprie funzioni, associati all’assenza di una vigilanza istituzionale e tra questi emergono anche le Forze dell’ordine.


(da commons.wikimedia.org)

La politica dell’ordine pubblico, dettata dall’esecutivo e gestita dalla polizia, divenne quindi un punto di forza del potere economico e politico, che ne fece un uso particolare in momenti di minore stabilità, nascondendosi dietro una sorta di esenzione da ogni responsabilità di natura politica delle forze dell’ordine; nonostante la forte connotazione e incidenza politica dell’attività svolta.

Ci furono quindi, e furono tanti, i fattori che concorsero a mantenere pressoché immutate le strutture fondamentali dello Stato italiano.

Altrettanti si dimostrarono i canali attraverso cui si impose la sostanziale continuità istituzionale. Questo panorama complessivo e chiaramente qui approssimativo ci dice molto – al netto delle rotture e delle successive riforme parziali – della presenza di canali specifici che hanno conservato e radicato nel tessuto nazionale e negli organi del potere istituzionale e delle forze dell’ordine, culture repressive, logiche di punizione sociale e politica, estraneità al senso della responsabilità civile e politica e pratiche di arbitraria violenza, sovente dettata da convenienza politica.

VIOLENZA STRUTTURALE

Pensare queste dinamiche di potere nel quadro degli anni Settanta è significativo e rende ineludibile la necessità di aprire un percorso di ricostruzione storiografica e di memoria, che chiama in causa molte categorie storiografiche ed etiche da affinare di continuo, perché ci parlano di ferite individuali e collettive ancora aperte e di importante valore politico.

Gli anni Settanta furono anni di “sovversivismo dall’alto e dal basso”.

Le conquiste dei lavoratori che saldarono la rimessa in discussione dei rapporti di potere nelle fabbriche alla richiesta di riconoscimento della funzione sociale del lavoro e al miglioramento generale delle condizioni di vita da declinare in termini di diritto sociale, portarono a un ciclo di conflittualità importanti, contrastati culturalmente dall’ideologia delle classi dominanti e avversati materialmente invocando l’autorità e l’intervento (armato) dello Stato.

Questo ragionamento intreccia la non neutralità degli apparati con la lunga eredità storica nazionale, che ha sempre avuto problemi a livello di legittimazione del lavoro e rispetto all’acquisizione di una piena cittadinanza sociale e politica del movimento operaio, rispondendo o in modo corporativo o riconducendo la domanda sociale nelle dinamiche della demonizzazione politica e dello scontro brutale, avendo, va da sé, più mezzi di repressione.


Chiaramente il risultato di queste dinamiche strutturali non si ripete mai uguale a se stesso e l’autoritarismo liberale non è assimilabile completamente a quello fascista, oltre a presentarsi in diversa forma nei vari momenti storici.

Al contempo però ci parla di una violenza arcaica, esercitata dalla classe dirigente ogni qualvolta le istanze di mutamento sociale si fanno più pressanti.


Ci parla anche di una retorica della violenza che ne legittima l’uso istituzionale e che ne demonizza, in assoluto, la pratica sociale, banalizzandone le diverse espressioni e senza contestualizzare all’interno di specifici rapporti di forza e dinamiche conflittuali.

Tutto questo, oltre a delegittimare lo strumento del conflitto sociale come dispositivo utile e necessario per portare avanti rivendicazioni e domande sociali che muovono dal basso e non trovano una risposta istituzionale, implica la perdita della complessità del discorso intorno alla violenza, storicamente decontestualizzata letta come binaria, demonizzata in toto se attribuita a determinate parti sociali (individuali e collettive, interpretare come socialmente e/o politicamente “devianti”); legittimata e spesso decolpevolizzata se perpetrata da forze conservatrici, frequentemente legate agli apparati statali.


Anche nel caso relativo a Santa Maria Capua Vetere, anche di fronte alle misure cautelari e qualora emergessero concrete condanne ulteriori, permane il rischio dell’individualizzazione della colpa, scissa da un discorso sistemico più ampio e utile alla relativizzazione di un problema strutturale che esiste e che non vuole essere affrontato, poiché delicato, poiché politicamente utile.

Dunque, sì, c’è un problema strutturale, materiale, culturale e di ideologica legittimazione di rapporti di potere e della loro conservazione e serve senz’altro ampliare un discorso teorico, che rilegga l’evoluzione storica di questi processi, con speciale attenzione agli anni Settanta, ma pure un discorso pubblico e politico, che apra spazi di consapevolezza, denuncia, lotta e pressione contro queste logiche sistemiche. Ed è questo ciò che mercoledì abbiamo provato a fare.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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