Nonostante l’Italia si trovi ancora in una profonda crisi occupazionale, con il numero di lavoratori occupati calato di circa 800 mila unità tra febbraio 2020 e giugno 2021 e con un tasso di disoccupazione aumentato dal 9,5% di fine 2019 al 10,5% di maggio 2021, la scadenza del blocco dei licenziamenti è arrivata. Con il decreto-legge n. 99/2021 il Governo pone fine, a partire dal 1° luglio 2021, al blocco dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo introdotto nel marzo 2020, escludendo dallo stop solo il comparto della moda (ritenuto uno dei settori che più ha subito la crisi per effetto delle misure di contrasto alla pandemia) e la filiera produttiva ad esso collegata come calzature, pelletteria e tessile.
A corredo della misura governativa, martedì 29 giugno Governo, sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL) e Confindustria hanno siglato un accordo. Si tratta, in realtà, di una mera presa d’atto di cui non si comprende il valore giuridico e l’effetto vincolante che potrà esercitare, ma che il segretario della CGIL Landini non ha esitato a definire un grande risultato per tutto il Paese. Nell’accordo si afferma testualmente quanto segue: “le parti sociali alla luce della soluzione proposta dal Governo sul superamento del blocco dei licenziamenti, si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro”. Si conclude, poi, che le parti “auspicano e si impegnano, sulla base di princìpi condivisi, ad una pronta e rapida conclusione della riforma degli ammortizzatori sociali, all’avvio delle politiche attive e dei processi di formazione permanente e continua”.
Vediamo allora in primo luogo brevemente il contenuto del decreto-legge, per poi passare all’accordo tra le parti sociali.
Da un lato, per i settori in cui il blocco dei licenziamenti non è più in vigore, quali ad esempio l’industria e le costruzioni, che si trovano in crisi o che hanno un tavolo di crisi aperto presso il Ministero dello Sviluppo economico, viene prevista la possibilità di utilizzare per 13 settimane, e fino al 31 dicembre 2021, la cassa integrazione straordinaria (CIG) in deroga gratuita (ossia senza contributo addizionale per le imprese), con conseguente divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Dall’altro, per il comparto della moda e della filiera ad esso collegato, il blocco dei licenziamenti sarà ancora in vigore fino al 31 ottobre 2021, con contestuale accesso, per le imprese di quei settori, alla CIG in deroga gratuita. In sostanza, quindi, non solo la misura del Governo sta consentendo alle imprese di ricominciare a licenziare, ma sta inoltre permettendo loro di poter utilizzare in alternativa la CIG gratuita fino all’ultimo spicciolo, limitandosi dunque a posticipare nel tempo quei licenziamenti. È senza dubbio, questa, una misura di chiara e intellegibile impronta padronale, che però, riteniamo, tradisce una visione della politica economica, peraltro non differente da quella propria dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni, che tenta di nascondere decisioni politiche sfacciatamente a favore delle imprese sotto la maschera dell’incentivo. Ad esempio, così come gli incentivi agli investimenti vengono giustificati dalla volontà di stimolare le imprese ad ampliare o a ricostituire la capacità produttiva – limitandosi, nel migliore dei casi, a consentire di anticipare decisioni che le imprese avrebbero comunque fatto -, così lo sblocco dei licenziamenti assume la veste di incentivo per le imprese ad utilizzare la CIG gratuita, limitandosi, nel migliore dei casi, a posticipare i licenziamenti. Come abbiamo infatti già avuto modo di sottolineare, i lavoratori in CIG sono dipendenti di imprese le cui esigenze produttive si sono ridotte o azzerate: se la domanda di manodopera da parte delle imprese non aumenta, o comunque non ritorna ai livelli pre-pandemia, le imprese avranno tutto l’interesse a sbarazzarsi di quei lavoratori in CIG tramite la rinnovata possibilità di licenziare, a prescindere dalla possibilità di utilizzare per qualche settimana in più la CIG.
Ora, se in parte non sorprende che una simile visione sia propria dell’attuale compagine governativa, lascia particolarmente di stucco che i sindacati confederali, di fronte alla più grave crisi economica che ha colpito l’Italia dal secondo dopoguerra, abbiano siglato un accordo con il Governo e con Confindustria che di fatto sposa appieno quella visione del sistema economico. Infatti, l’accordo tra le parti sociali da un lato si limita a definire una mera presa d’atto relativa all’impegno da parte delle imprese di utilizzare la CIG rispetto alle risoluzioni dei rapporti di lavoro (con ciò legittimando, di fatto, il contenuto del decreto legge che però, come abbiamo evidenziato in precedenza, si limita a posticipare una potenziale bomba sociale); dall’altro, il riferimento alle politiche attive e ai processi di formazione permanente certifica che anche per i sindacati il problema della disoccupazione e della carenza dei posti di lavoro è una questione che si risolve semplicemente dotando l’individuo di maggiori competenze specifiche, formandolo e orientandolo verso la ricerca di un posto di lavoro. D’altro canto, così recita il mantra di Draghi della distruzione creatrice del mercato, secondo la quale è sufficiente favorire lo spostamento dei lavoratori verso le aziende virtuose, ossia quelle che, pur avendo avuto difficoltà nel corso della crisi pandemica, sono finanziariamente sane e con prospettive di ripresa, dunque pronte ad assorbire lavoratori qualificati e specializzati espulsi dal processo produttivo. In questa direzione stanno andando le pericolose idee di riforma degli ammortizzatori sociali: l’idea malsana alla base di questo modo di ragionare è quella che, se sei disoccupato o inoccupato (ossia non sei formalmente alla ricerca di un lavoro), è sufficiente, per trovare un impiego, che tu segua un percorso di formazione e/o di inserimento mirato nel mercato del lavoro. Se però ciò può verificarsi per un singolo individuo, nell’aggregato, ossia per il complesso dei disoccupati, questa proposizione non trova ragione d’essere se al contempo i livelli complessivi di attività economica, e dunque anche la domanda complessiva di lavoro, non aumentano. In poche parole, l’eccesso di offerta di braccia rispetto alla domanda non è un problema legato alla scarsa qualifica dei lavoratori o alla loro incapacità di cercare un impiego, come da più parti vogliono farci credere, bensì viceversa alla carente domanda di lavoro da parte del complesso delle imprese. Ritenere allora che all’aumento dei licenziamenti si possa far fronte con le politiche attive, vuol dire semplicemente accettare, a parità di altre condizioni, un aumento della disoccupazione, che a sua volta implica minori salari pagati, minori spese per consumi da parte delle famiglie e, dunque, minore domanda di beni e servizi, minore produzione e conseguenti ulteriori licenziamenti.
Si potrebbe comunque obiettare a quanto da noi argomentato che, nonostante lo sblocco dei licenziamenti, non vi saranno molte risoluzioni di rapporti di lavoro poiché comunque le previsioni di crescita del PIL dell’Italia per il 2021, stimata intorno al 5%, e per gli anni successivi fanno sperare per il meglio. Chiaramente non sappiamo se, per effetto della stimata crescita del PIL per l’anno in corso e – speranzosamente – per quelli successivi, la domanda di lavoro aumenterà in modo tale da impedire l’esplosione di una bomba sociale. Tuttavia, anche a parità o a seguito di incrementi della domanda di lavoro, la rinnovata possibilità di licenziare rappresenta una ghiotta occasione per le imprese per riorganizzare la produzione, soprattutto a seguito di una crisi economica, sostituendo lavoratori con un tradizionale contratto a tempo indeterminato con lavoratori con contratti a tempo determinato o con i nuovi contratti ‘a tutele crescenti’; infatti, tra le motivazioni di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo rientrano non solo quelle legate alle crisi aziendali, ma anche quelle relative ad un miglioramento dell’efficienza gestionale dell’impresa o ad un aumento della redditività. Sulla base di tali motivazioni, le imprese hanno, ad esempio, l’occasione di sostituire lavoratori più anziani (e più ‘costosi’) con quelli più giovani con minori tutele, data la possibilità di poter non solo assumere a tempo determinato per 12 mesi senza le causali, ma anche di prorogare senza causali lo stesso contratto per altri 12 mesi, per ora fino al 31 dicembre 2021, così come previsto dal Decreto-legge Sostegni.
In conclusione, si pone a seguito dello sblocco dei licenziamenti non solo un potenziale problema di livelli di occupazione, ma anche di composizione dell’occupazione, ossia di quanti impiegati sono assunti con un contratto a termine. Questa composizione, al pari dei livelli, può influenzare il potere contrattuale dei lavoratori e, per questa via, i livelli salariali, in quanto più precari ci sono, meno potere contrattuale essi avranno nei confronti dei datori di lavoro sulla contrattazione e sulle condizioni di lavoro.
La direzione politica del Governo Draghi, ligio esecutore dell’austerità di matrice europea, è ormai limpida. Altrettanto chiara, anche alla luce di questo accordo, diventa la complicità dei sindacati confederali. Le vicende della GKN (422 lavoratori licenziati) e della Gianetti (152 lavoratori licenziati) ci raccontano, plasticamente, che le prime vittime dello sblocco dei licenziamenti stanno già arrivando. Lo ribadiamo: criticare ed attaccare sindacati che rappresentano milioni di lavoratori non è un esercizio piacevole né divertente, ma di fronte a tali scelte diventa una necessità politica. Infatti, non solo questi accordi testimoniano la totale abdicazione ai propri doveri di difesa e tutela dei lavoratori, ma contribuiscono a diffondere scoraggiamento, sfiducia e rassegnazione. Il mondo del lavoro, oltre ad aver vissuto dagli anni ‘90 una spietata fase di arretramento in termini di reddito, diritti e condizioni lavorative, è ora sotto attacco di una crisi economica senza precedenti: provare a invertire queste tendenze è un dovere per chi, non ancora totalmente accecato dalla propaganda del nemico di classe, vuole davvero difendere gli interessi di tutti coloro che non hanno nulla da guadagnare da questo sistema economico.