A volte certe pseudo-inchieste nascono per caso. Pochi giorni fa incontro un caro amico del tempo che fu: anni ormai consegnati alla memoria di entrambi. Dopo i primi convenevoli, mi racconta che ha trovato lavoro come cameriere in un ristorantino della riviera ligure. Ogni giorno fa quasi un’ora di strada, con la sua moto, per raggiungere il locale e poi per tornare a casa.
L’ambiente è bello, il proprietario è una persona a modo: tutto in regola, per intenderci. Netto il ristorante, netto il contratto di lavoro. Poi arrivano, però, le note dolenti: Massimo (chiamiamolo così, con uno pseudonimo, come fanno i grandi giornali quando occultano il nome di un intervistato) dovrebbe lavorare cinque ore al giorno. Festivi compresi. In realtà ne lavora otto, perché le sue cinque ore partono appena si mette il grembiule per dare una mano in cucina a quando se lo toglie dopo il servizio in sala.
Poi ci sono delle ore che si aggiungono e che non sono conteggiate nella busta paga: siccome il locale fa solo una cinquantina di coperti (che non sono affatto male, soprattutto di questi tempi) rispetto ai quasi cento che potrebbe contenere e soddisfare più volte nel corso di una giornata/serata, secondo il proprietario basta una sola persona per sistemare tutto quando i piatti vengono ritirati per l’ultima volta.
Tocca a Massimo, praticamente finito il turno, mettersi lì a riordinare tutta la sala. La cucina è di pertinenza del proprietario e della moglie. Il plusvalore, qui, nasce proprio nel momento preciso in cui l’ultimo cliente è uscito. In quel preciso istante si lavora praticamente gratis. Ma tutto è in regola, perché il prolungamento di quel lavoro (che ufficialmente non è in nero) è la protesi di una occupazione firmata e sottoscritta secondo un contratto assolutamente legale. Dove non c’è traccia di straordinari, dove non c’è traccia di estensione dell’orario di impiego, dove pertanto l’elasticità e la flessibilità non sarebbero ammesse: almeno legalmente. Ma se vuoi lavorare, ti devi adattare.
Il proprietario – racconta Massimo – ha sopportato come tanti ristoratori le chiusure dovute al Covid-19; ha arrancato per molti mesi, ma non è mai stato seriamente in una condizione debitoria, nella tragica opzione tra il tirare giù la saracinesca o pagare magari pure degli strozzini per tirare avanti. Molti suoi colleghi sono stati costretti a scelte veramente dure. Ma non certo meno dure di milioni di indigenti che perdono il lavoro quotidianamente, che vengono magari licenziati con una semplice, icastica lettera di posta elettronica…
Delle ore eccedenti, Massimo ha parlato con il suo “datore di lavoro” (le virgolette, lo comprenderete, sono ascrivibili all’insopportabilità di associare questa terminologia alla verità oggettiva dei fatti. Definitela pure una specie di esegesi del linguaggio comune), ma senza risultato: anche tra chi non assume un atteggiamento di proprietaria arroganza, la pandemia diventa immediatamente un alibi perfetto su cui costruire un castello di pronte scuse che assumono i tratti della difesa ad ogni costo. Dal fisco, dal timore della variante Delta, dai costi patiti per adeguare il locale alle normative anti-Covid, e così via.
Dove tagliare? Sulle paghe dei dipendenti, visto che – ci tiene a precisare il ristoratore – la qualità dei cibi non deve essere sacrificata in nessun modo: ne va del buon nome del locale. Tutto molto comprensibile dal punto di vista dell’esercente: meno da quello del povero Massimo che, come tanti suoi colleghi, viene sfruttato per almeno due, tre ore al giorno senza essere minimamente pagato.
Poi, la domenica mattina apri il giornale e trovi articoli che denunciano la discrepanza tra offerta di lavoro e accettazione della medesima: il 30% dei posti da cameriere, un po’ in tutte le riviere, da quella ligure a quella romagnola, da nord a sud del Paese, rimane inoccupato. Pizzaioli, baristi, ristoratori di ogni tipologia si lamentano, si lagnano: sostengono che chi ha veramente voglia di lavorare, alla fine il lavoro lo trova. Quei 30 su 100 che rifiutano o che non accettano determinate condizioni, vengono bollati come “scansafatiche“.
Insomma, se non sei disposto a farti sfruttare per due, tre ore al giorno, se non sei disposto a lavorare “aggratis“, sei un fannullone e non invece una persona che reclama il diritto di essere retribuito per ciò che fa: visto che non lo fa soltanto per sé stesso, ma principalmente per qualcun altro. E questi è, sovente, qualcuno che gli scontrini li fa a chi non conosce, mentre evita di batterli a chi è cliente abituale. Succede così un po’ dappertutto. E’ il Bel Paese, quello delle pubblicità dove tutto deve ripartire, in sicurezza, meglio di prima. Perché tutto doveva andare bene: così non è stato e peggio sarà domani.
Massimo non si salva nemmeno con le mance. Facciamo due conti: si paga la benzina per andare al lavoro. Mezz’ora ad andare al ristorante e mezz’ora per tornarsene a casa. Circa 45 km in tutto. Ad 1,60 euro al litro, con un pieno da 10 euro vai avanti e indietro per 5 giorni al massimo. Ci vogliono dunque almeno 50 euro al mese per andare al lavoro, solo di benzina verde. La paga è di 7 euro l’ora: poco più di 1.000 euro al mese. Le ore non pagate ammonterebbero a 630 euro mensili.
Secondo i dati di Confindustria e del suo autorevole quotidiano, un cameriere esperto, quindi con molti anni di esercizio della professione (diciamo circa 10 anni) sulle spalle, guadagna oggi mediamente in Italia 1.400 / 1.500 euro al mese. Dipende ovviamente dal tipo di locale, dal suo prestigio, dalle stelle che può avere sulle guide culinarie, dall’impostazione gestionale e così via.
E’ evidente che il padrone non può dare a Massimo uno stipendio che sovrasta di parecchie centinaia di euro quelli che sono mediamente attribuiti alla categoria. Però, invece di 5 ore, il mio amico ne fa quasi sempre 8. Finisce per essere una regola dello sfruttamento, attribuita alla necessità della sopravvivenza delle piccole, medie e anche grandi imprese.
Troppo lavoro per troppo poco stipendio. Poco lavoro per tanta concorrenza e falcidiamento del livello salariale. Non se ne viene fuori se non mettendo in discussione radicalmente certi automatismi dati per scontati anche dal fronte sindacale. E stiamo parlando di un caso in cui sono almeno state rispettate le leggi. Formalmente e praticamente. Se ci addentrassimo nel lavoro nero, in quello schiavistico dei campi di pomodori, dove si crepa per colpi di calore mentre si torna a casa in bicicletta, i numeri sarebbero descrittivi di una condizione disastrosa della mano d’opera, dell’impiego della forza-lavoro tanto in Italia quanto in tante altre parti d’Europa.
Ecco, sono cronache d’estate anche queste. Impietose e che, proprio per questo, meritano di essere raccontate. Magari quando un cameriere vi serve, se non è il padrone del locale, dategli qualche euro di mancia. Sarà pure degradante e non risolve il problema della giustizia sociale che manca, ma se non altro il ragazzo ci si pagherà un po’ di benzina per tornarsene a casa.
MARCO SFERINI