Il 22 giugno 2021 il governo spagnolo ha deciso un provvedimento di “indulto” per i 9 detenuti politici catalani, condannati in via definitiva per il referendum unilaterale del 1° ottobre 2017.

Il termine “indulto” non deve trarre in inganno i lettori italiani. Al contrario che nella tradizione italiana si tratta di un provvedimento di grazia personale (gli indulti sono stati nove) di esclusiva competenza del governo, che è corredato da condizioni violate le quali decade, che non cancella il reato, che non estingue totalmente la pena (rimane la pena accessoria per la quale si perde la possibilità di essere candidati alle elezioni ed anche ad esercitare una qualsiasi professione in una struttura pubblica).
In Spagna l’indulto non è un provvedimento straordinario o inusuale. Nei 40 anni circa di democrazia post franchista tanto i governi del Partito Popolare come i governi socialisti ne hanno promulgati più di diecimila, nella stragrande maggioranza per detenuti comuni ammalati, troppo anziani ecc. Ma anche per governanti corrotti (diverse decine), golpisti come il Generale Alfonso Armada, condannato a 30 anni di carcere come massimo responsabile del colpo di stato del 1981 e graziato dopo 5 anni dal governo del PSOE, come un ministro degli interni e un sottosegretario del PSOE condannati a 10 anni di carcere per aver coperto e finanziato il gruppo terrorista GAL (che fu sostanzialmente un apparato para poliziesco illegale e clandestino che operò in Francia e Spagna con assassinii di decine di militanti e simpatizzanti dell’ETA, sequestri e attentati negli anni 80 nel periodo di governo di Felipe Gonzales), e graziati dal governo del PP di Aznar che consentì loro di uscire dal carcere dopo solo 3 mesi di detenzione.

Queste brevi specificazioni sugli “indulti” sono utili e necessarie per inquadrare bene il provvedimento che riguarda gli indipendentisti catalani e soprattutto, come vedremo più avanti, per qualificare le reazioni politiche successive.

Perché gli indulti?

Dopo l’ormai noto referendum unilaterale del 2017 e il processo del Tribunal Supremo che condannò in
ottobre del 2019 sei membri del governo catalano, la Presidenta del parlamento e due presidenti delle grandi associazioni di massa indipendentiste a pene dai 9 ai 13 anni, si svolsero le elezioni generali che permisero la formazione del primo governo di coalizione della Spagna postfranchista.
Fino all’ultimo giorno di campagna elettorale Pedro Sanchez e tutto il PSOE avevano ripetuto che:

1) il problema catalano era un problema di convivenza dentro la regione e non un problema storico e politico da risolvere attraverso un negoziato,

2) la condanna era giusta e avrebbe dovuto essere scontata integralmente,

3) il nuovo governo avrebbe ottenuto l’estradizione dei diversi membri del governo catalano in esilio,

4) che non ci sarebbe stato nessun governo di coalizione con Unidas Podemos,

5) che il nuovo governo non avrebbe cercato accordi con gli indipendentisti catalani e baschi.

In realtà nessuna di queste proposte o previsioni si è poi realizzata. Si può dire che è successo esattamente l’opposto.
Ma questo non è importante ricordarlo solo per qualificare lo spessore politico di Sanchez e la deriva, per non dire degenerazione, della politica spettacolo spagnola. Lo è soprattutto per capire la natura della reazione e dell’opposizione dei tre partiti di destra, dei vertici del potere giudiziario, della maggioranza dei mass media e di parti non piccole degli apparati repressivi dello stato.
Da quando si è formato il governo PSOE Unidas Podemos le destre politiche (PP, VOX e CIUDADANOS)
hanno impostato la loro durissima opposizione accusando il governo di essere illegittimo per aver imbrogliato gli elettori in campagna elettorale. Hanno accusato ed accusano Sanchez di aver fatto entrare i comunisti (Unidas Podemos) al governo e di aver fatto un patto con separatisti (ERC) e filoterroristi (BILDU) per ottenere i voti necessari a sopravvivere al governo, svendendo la “patria”, la sua sovranità e il suo modello sociale. Hanno paralizzato l’elezione del nuovo vertice giudiziario (scaduto da due anni e mezzo) per via delle maggioranze qualificate necessarie che senza di loro non si possono attivare. Dal canto loro i vertici del potere giudiziario in diverse occasioni (sarebbe troppo lungo elencarle) hanno manifestato più o meno esplicitamente il loro malessere, per esempio esprimendo il parere (non vincolante ma necessario) totalmente negativo sugli indulti, al contrario di quanto avevano fatto per golpisti, corrotti e organizzatori dei GAL. Anche fra le forze dell’ordine e nell’esercito si è palesata una sorda opposizione al governo.

È in questo clima che il governo PSOE Unidas Podemos (dopo ripetute insistenze di UP) ha “dovuto” fare due cose fondamentali che a tutti gli effetti sono una svolta nella politica spagnola. La prima è riconoscere la natura politica del conflitto fra Generalitat catalana e stato spagnolo e la conseguente necessità di avviare un dialogo bilaterale con il nuovo governo indipendentista catalano. La seconda è la promulgazione degli indulti, varati ufficialmente per “distendere” la situazione e facilitare il dialogo ma anche, senza dirlo, per l’evidente sproporzione delle condanne, per la discutibile applicazione di un reato di sedizione inesistente, per i rovesci nei tribunali del Belgio, Germania, Gran Bretagna ed europei, per ripetute prese di posizione di organismi dell’ONU, del Consiglio d’Europa e di organizzazioni come Amnesty International e così via.
Ma bisogna sapere che sulla strada del dialogo fra governo spagnolo e governo catalano ci sono ancora veri e propri macigni affinché si possa trasformare in un negoziato capace di trovare un compromesso condiviso. A cominciare dalla repressione che è tutt’altro che finita.

La repressione

Gli indulti riguardano nove persone, che per altro non li hanno mai chiesti direttamente, e che hanno rivendicato tutto ciò che hanno fatto considerandolo legittimo. Ma se il governo ha nelle sue disponibilità la promulgazione di provvedimenti di grazia non ha voluto e poi neppure potuto fermare la macchina repressiva che ha investito tutto il movimento indipendentista catalano.
Parliamo di circa 3mila fra investigati, inquisiti, imputati. Fra i quali centinaia di sindaci, decine di funzionari dirigenti di alto livello delle istituzioni catalane, parlamentari e così via. Parliamo del Capo della polizia catalana accusato di REBELION (colpo di stato) e poi di SEDICION, destituito nel 2017 e poi assolto nell’ottobre scorso con una sentenza che dice l’esatto opposto sulla “sedicion” di quella del Tribunal Supremo. Parliamo del Tribunal de Cuentas (che non fa parte del sistema giudiziario e che è
nominato dal parlamento) che applica a politici e funzionari della Generalitat (assolti, mai condannati e nemmeno imputati per malversazione) pene pecuniarie che vanno da centinaia di migliaia di euro a più di 3 milioni di euro ciascuno).
Parliamo di operazioni di polizia con arresti e uso di corpi speciali, e grancassa mediatica di settimane, contro semplici militanti degli organismi di massa indipendentisti accusati per terrorismo, in modo tale da poter paragonare l’indipendentismo catalano con l’ETA, che due anni dopo sono finite nel nulla con pieno proscioglimento degli imputati.
Se questa repressione, e la sua continuazione, colpisce il movimento popolare indipendentista, nel tentativo di scoraggiarlo, è anche un’ipoteca ed un ostacolo al “dialogo” fra i due governi. E segnatamente è rivolta, anche se indirettamente, contro il PSOE. Mentre si continua, da parte di quelle che in Spagna la stampa chiama “las cloacas del estado” (le fogne dello stato) a montare procedimenti giudiziari basati su prove false contro Podemos. Negli ultimi 7 anni 15 procedimenti giudiziari contro Podems per finanziamento straniero (Iran e Venezuela), fondi in nero, corruzione ecc, avviati con grande clamore di stampa e settimane di talk show dedicati, sono stati alla fine archiviati per l’assoluta infondatezza e mancanza di prove, ma con il silenzio dei mass media spagnoli. Del resto, fin dal suo inizio il movimento indipendentista catalano aveva subito lo stesso trattamento, con la “polizia patriottica” (in Italia si direbbe deviata) impegnata su ordine di ministri del PP a fabbricare, e diffondere attraverso la stampa complice, prove false di corruzione contro esponenti indipendentisti. Come è emerso inequivocabilmente dalle inchieste giudiziarie nei processi in corso.

Insomma, gli indulti che sicuramente hanno dato un segnale di distensione da parte del governo, non hanno risolto nessun problema per quel che concerne la soluzione politica del conflitto. La repressione continua incessantemente e si estende anche contro movimenti sociali spagnoli, contro cantanti condannati ad anni di carcere per il contenuto delle loro canzoni e/o per vilipendio del re. Cui hanno fatto seguito proteste anch’esse represse violentemente e con nuovi casi di incriminazione. L’ultimo caso di qualche giorno fa è un manifestante che durante le cariche della polizia in una manifestazione di due anni fa avrebbe colpito, con l’asta di una bandiera, il braccio di un poliziotto procurandogli una lieve contusione, condannato in primo grado a cinque anni di carcere.

In ultima analisi possiamo dire che in Spagna è in corso un doppio movimento. Se da una parte c’è un governo che nei fatti ha virato a sinistra sul sociale (ma vedremo cosa succederà più avanti sui nodi più importanti del programma di governo che il PSOE è sempre più restio ad implementare) ed ha riconosciuto l’esistenza del conflitto politico catalano, dall’altra parti consistenti dello stato e i partiti di destra si sono arroccati in posizioni e comportamenti palesemente reazionari reiterando ed estremizzando la concezione storica dello stato che non riconosce l’esistenza delle nazioni basca, catalana e galega, che considera abusiva la presenza in parlamento e soprattutto nel governo e nella maggioranza che lo sostiene dei comunisti e dei “separatisti”.
Come si vede è una situazione, oltre che complessa, dagli esiti incerti e probabilmente senza sbocchi positivi.

Si può risolvere il conflitto politico catalano?

Allo stato e per un lungo periodo penso sia impossibile. Perché la destra spagnola è tutt’altro che liberale, ed è intrisa di nazionalismo sciovinista. Ultimamente ha ribadito la propria continuità con il regime franchista nella difesa della monarchia imposta dai ministri di Franco che parteciparono alla redazione della Costituzione del 78, arrivando a dire, come ha fatto il Presidente del PP Casado pochi giorni fa in parlamento, che la guerra civile oppose “coloro che volevano una democrazia senza legge a chi voleva la legge senza democrazia”. In realtà la transizione non è mai stata completata e, come si poteva prevedere facilmente, i nodi irrisolti non spariscono col tempo da soli e finiscono per riapparire con più forza nel pieno di crisi politiche e sociali. La pura continuità dei vertici degli apparati giudiziari, militari e polizieschi che entrarono amnistiati ed intatti nella “democrazia” non solo non li ha epurati con il tempo per motivi generazionali, ma li ha replicati ed arroccati in una posizione per la quale “sentono” di avere la missione di “salvare la patria” dai separatisti e dai comunisti con qualsiasi mezzo. Esattamente come diceva il dittatore. Anche se il disegno, più che evidente, di logorare il governo attuale per sostituirlo alle prossime elezioni con un gabinetto del PP sostenuto da VOX, andasse male, non ci sarebbe, come non c’è oggi la maggioranza qualificata sufficiente per fare riforme costituzionali sui punti imposti dal franchismo e tanto meno per indire un referendum sulla monarchia e per un modello federale o confederale dello stato.

Figuriamoci per un referendum di autodeterminazione catalano sul modello canadese o scozzese.
Inoltre il PSOE è diventato un partito monarchico, che nega il diritto all’autodeterminazione delle nazioni catalana, basca e galega. E la stessa deriva ha avuto, in tempi diversi e scontando per questo scissioni ed esodi verso l’indipendentismo, anche il Partito Socialista Catalano. Mentre è spiegabile il perché la transizione dovette includere i franchisti, accettare la monarchia imposta dalla dittatura e una concezione dello stato fondata sul nazionalismo spagnolo, per legalizzare partiti e sindacati e aprire una nuova fase, non è spiegabile perché ciò che i franchisti imposero con la forza del controllo dell’esercito, della magistratura e degli apparati repressivi, invece che superato nel corso di 40 anni con lunghissimi periodi di governo socialista, sia diventato un dogma e perfino una bandiera del PSOE di oggi.

Passi che oggi purtroppo anche partiti con una lunga storia siano diventati eclettici, senza principi ed interessati solo ad andare al governo per fare qualsiasi politica che gli permetta di restarci. Ma è difficile trovare un partito che nel 1977, nel congresso che precede la redazione della costituzione, propone una repubblica federale con diritto all’autodeterminazione per le nazioni catalana, basca e galega, e quando va al governo diventa monarchico (per giunta con una monarchia instaurata da Franco del 1974), e nel corso degli anni smette di essere federalista e alla fine nega il diritto all’autodeterminazione delle tre nazioni di cui sopra. L’idea del paese e dello stato non dovrebbe essere mai una banderuola dipendente dal marketing elettorale e dalle convenienze del momento.
Per alcuni versi spiace dirlo ma il PSOE e il PSC sono responsabili quanto le destre dell’involuzione della situazione spagnola che ha portato la maggioranza dei catalani su posizioni indipendentiste in tutte le elezioni degli ultimi anni. O forse più delle destre giacché il franchismo è nel DNA del PP in quanto fondato da ministri di Franco, giacché non ha mai condannato la dittatura ed è monarchico fin dalla sua nascita.

Unidas Podemos è una forza repubblicana, che riconosce l’esistenza e il diritto all’autodeterminazione delle diverse nazioni che insistono sul territorio dello stato, che ha condannato e condanna la repressione, che ha proposto una riforma del codice penale per eliminare il delitto di sedizione sia per annullare le cause contro l’indipendentismo sia per evitare che possa essere applicato anche contro movimenti sociali e sindacali, che ha sostenuto con forza la necessità di aprire un negoziato fra Generalitat e governo spagnolo.
Ma nella sua politica ci sono due problemi. Il primo è che il PSOE ha le posizioni che ha e quindi fa il minimo indispensabile solo per mantenersi al governo. Il secondo, ben più serio, è che pur volendo una repubblica federale con diritto all’autodeterminazione per la Catalunya, non è in grado di indicare una strada credibile per ottenere questi due obiettivi. Una cosa è parlare di repubblica e di diritto all’autodeterminazione in astratto, criticando l’unilateralismo degli indipendentisti e le loro pratiche di disobbedienza civile pacifica di massa e istituzionale come avventuriste, ed un’altra è offrire una proposta efficace e percorribile. Una cosa è parlare di repubblica federale e autodeterminazione per 40 anni come prospettiva “ideale” come hanno sempre fatto il PCE e Izquierda Unida, ed un’altra è ripeterle in presenza di un movimento popolare e di massa che rivendica qui e subito la Repubblica Catalana. Econ un’opinione pubblica catalana nella quale in tutti i sondaggi d’opinione degli ultimi anni i favorevoli ad un referendum oscillano tra il 70% e l’80%.

Questi sono i motivi che mi inducono ad essere pessimista circa la possibilità di risolvere il conflitto in tempi ragionevoli e democraticamente.
Anche perché il movimento indipendentista non è uscito indenne dalla repressione ed è affiorata una divisione fino ad ora irrisolta.

Il movimento indipendentista

Dal referendum in poi il movimento è diviso fra due impostazioni e prospettive alternative fra loro. Per alcuni versi incompatibili fra loro.
Questo è il frutto avvelenato della repressione che l’ha colpito, ma anche di una divisione politica propria. Da una parte Junts per Catalunya, guidata dall’ex Presidente Carles Puigdemont dall’esilio, che non si fida del “dialogo” e pensa sia necessario continuare uno scontro pacifico e democratico ma molto determinato con lo stato, fino ad ottenere i rapporti di forza, e il supporto di una parte della comunità internazionale, sufficienti ad obbligare il governo a negoziare un referendum. E su questo punto anche l’indipendentismo di estrema sinistra della CUP e, con qualche piccola differenza le due grandi associazioni di massa, sono sostanzialmente d’accordo.
E dall’altro Esquerra Republicana de Catalunya, che è cresciuta molto elettoralmente ed ora, per la prima volta dalla Seconda Repubblica, guida il governo catalano. ERC propone di lavorare per un lungo periodo all’allargamento della base sociale dell’indipendentismo con politiche economiche e sociali di sinistra, di sfruttare fino in fondo i propri voti determinanti per la vita del governo di Unidas Podemos condizionandolo il più possibile, anche sostenendo dall’esterno le rivendicazioni economiche e sociali di UP dentro il governo (e su questo ha stretto un patto di unità d’azione con Bildu), di mettere alla provail governo spagnolo al tavolo di negoziato.

Alla fine di lunghe trattative il punto di compromesso fra ERC, Junts per Catalunya e CUP è un programma di governo avanzato sui temi sociali (concordato da ERC con la CUP e subito da Junts) e negoziato con il governo spagnolo, ma con scadenza di due anni, alla fine dei quali i tre partiti indipendentisti dovranno fare una verifica e un bilancio, insieme alle due associazioni di massa, e discutere se continuare il negoziato o riprendere la via unilaterale. Il tavolo fra governo catalano e spagnolo inizierà a metà settembre. Gli indipendentisti hanno già detto che la loro proposta di partenza sono l’amnistia e il referendum di autodeterminazione. Il governo spagnolo, al netto di dichiarazioni negative estemporanee di esponenti del PSOE, dovrà presentare una propria proposta di soluzione politica del conflitto. Come sempre succede in casi simili si parte ovviamente da posizioni contrapposte. Resterà da vedere quale sarà la reale volontà politica di negoziare sul serio e di non usare il negoziato per tirarla in lungo con la speranza, che fino ad ora ha dato frutti opposti, che il movimento indipendentista catalano rifluisca o si rassegni.

Si complica il conflitto politico tra Catalogna e Spagna

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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