Qualcuno ingenuamente ci casca. Qualcun altro se le beve tutte e, poi, ci sono quelli che invece ci credono fermamente e sono i peggiori, perché pretendono di essere in buona, se non ottima, fede. L’ISTAT registra delle cifre sull’aumento del Prodotto Interno Lordo e le consegna al governo che, a questo punto, fa il suo mestiere: le propaganda. Il ministro Brunetta, per primo. Dopo un anno e mezzo di pandemia, era facilmente prevedibile che la crescita economica si sarebbe rimessa in moto non appena le riaperture avessero consentito la ripresa di molte attività produttive.

Infatti, ci dice il nostro istituto nazionale di statistica, nel mese di giugno il PIL è salito del 2,7% e l’occupazione “vola“. Ottimismo ingiustificato, almeno dal punto di vista del mondo del lavoro, perché è proprio l’angolazione da cui si leggono le percentuali e i numeri assoluti di questo “boom” che determina una differente interpretazione degli stessi e, quindi, una analisi diversa sulla condizione della nostra economia.

L’ISTAT ci dice che, in particolar modo, la disoccupazione diminuisce tra le giovanissime generazioni, nella fascia tra i 20 e i 30 anni. Apparentemente è un dato incoraggiante: lo è se non si considera la natura del lavoro che questi ragazzi intraprendono. E’ tutto precariato, nulla di garantito, nulla di stabile. Ciò vuol dire che le aziende acquisiscono forza-lavoro a basso costo (evitando contratti dispendiosi, quelli che contemplano diritti maggiori e tutele eguali) e che dei 166.000 posti in più registrati nel mese scorso una larghissima parte sono a tempo determinatissimo.

Non esiste, perciò, alcuna certezza sulla ripresa di una economia che si affida esclusivamente all’instabilità sociale e a dinamiche avventuriste nella gestione delle imprese da parte di una classe imprenditoriale che intende sfruttare non solo i lavoratori ma pure ogni occasione che la pandemia offre per fare profitti a tutto scapito dell’indigenza crescente e dell’insicurezza dilagante.

La descrizione che i grandi giornali nazionali fanno del quadro fornito dall’ISTAT è agiografica di un capitalismo cinico e baro: mentre si elogiano le cifre della ripresa, ogni giorno si muore sul lavoro per incidenti rubricati, come al solito, a fatalità, disgrazie, eccezioni. Che confermano però la regola: se non investi in sicurezza e in prevenzione degli infortuni, prima o poi il morto purtroppo ci scappa. Il fatto è che non c’è un giorno in cui il contatore non giri.

Mattia aveva 23 anni e lavorava in un cantiere. Tre mesi fa, il 29 aprile, quindici quintali di impalcature si sono sganciati dal carico di una gru e gli sono finiti addosso. Mattia è morto mentre tutto intorno a lui si iniziava a parlare di economia brillante, di rimodulazione delle prospettive future. Quelle di un padronato che non si cura minimamente di accompagnare all’aumento dei profitti un eguale aumento delle garanzie per gli sfruttati che impiega per fare quegli stessi profitti.

Sua madre ha ragione nel denunciare la riduzione della morte di suo figlio, e di tanti altri lavoratori, ad un laconico, sterile e arido dato statistico. Per di più consegnato alla narrazione di una consuetudine ormai consolidata nell’apprendere notizie quotidiane su tutto ciò che di infausto avviene nei cantieri, nelle fabbriche ed anche sotto il sole dei campi dove, magari dopo aver raccolto pomodori per dieci ore, sali in bicicletta per tornare nella baracca dove mestamente vivi e stramazzi al suolo per un colpo fatale di calore.

Agosto è dietro l’angolo e i padroni se ne andranno beatamente in vacanza: dividendo in più, dividendo in meno, non sono certo loro a dover tirare la cinghia, a dover arrivare alla terza settimana del mese avendo già finito tutto lo stipendio di un lavoro precario (ma pure quello di un lavoro fisso…).

Le istituzioni europee, prima fra tutte la Commissione di Ursula von der Leyen, guardano all’Italia favorevolmente per le controriforme che il governo sta mettendo in campo in materia di giustizia, allentando una rete di garanzie civili che impedisce tutt’oggi di veder prescritti molti reati, anche in merito a violazioni macroscopiche dei diritti dei lavoratori e di reati finanziari compiuti da imprenditori senza scrupoli e privi di qualunque – diciamo così – “amor patrio“. Quello che dovrebbe indurre i commendatori del lavoro (e del profitto) a pagare tutte le tasse, a pagarle in Italia, evitando di scudare i capitali, di rifugiarsi nei paradisi fiscali, di aumentare così ricchezze fatte sulla pelle di chi veramente lavora e non si spartisce nessun capitale al tavolo degli azionisti.

Mattia e tutte le lavoratrici e i lavoratori morti mentre si guadagnavano un onesto salario, meritano giustizia, per le loro famiglie, e meritano, grazie ad un impegno sociale, sindacale e politico, di essere il monito su cui costruire una azione efficace contro queste ripetute e consolidate pratiche di elusione delle norme in materia di sicurezza in tutti i posti di lavoro.

La crescita vera di un Paese che vuole avere un futuro e darlo, prima di tutto, ai suoi giovani, passa non soltanto dai soldi prestati a strozzo dall’Europa con il Recovery fund, ma principalmente dall’adeguamento delle condizioni di lavoro a standard umani, di rispetto pieno della persona che produce ricchezza per l’imprenditore e per il Paese (in senso generale, il tanto citato PIL) tranne che, nell’immediato, per sé stessa.

La scusa più facile per evitare di assumere senza troppi lacci e lacciuoli, è che la pandemia avrebbe generato una instabilità dei mercati, per cui mentre in Italia – ad esempio – si osservano numeri di crescita abbastanza costante, in Germania l’inflazione attualmente galoppa, salendo al 3,8% e si fa largo lo spettro di una crisi ad alto tasso di inflazione, paventando gli spettri di un periodo da Repubblica di Weimar. Pur di non pagare un ammodernamento delle strutture, di garantire condizioni di lavoro pienamente sicure ai propri dipendenti, i padroni sono disposti a ricorrere anche alla teoria di una moderna eterogenesi dei fini, a qualcosa che prescinde dalla loro volontà e che si frappone quindi tra ciò che davvero vorrebbero poter garantire ma che, non si sa bene come, forse grazie alla “mano invisibile” del mercato, sfugge al loro controllo.

Il governo delle certezze, delle meraviglie e del rilancio dell’Italia con pandemia in corso d’opera, si sta dimostrando per quello che era prevedibilissimo potesse e dovesse inevitabilmente essere: un guardiano attento del mondo dell’impresa come unica variabile dipendente dell’economia nazionale, prescindendo da un mondo del lavoro che necessita invece di una attenzione prioritaria, sapendo bene che senza cura della forza-lavoro non c’è, alla fine, profitto che possa essere prodotto.

Solo la lotta sociale e sindacale può cambiare questo stato di cose. Fare conto sul governo è essere in malafede da un lato e stare dalla parte del padronato, oppure illudersi che, chi è lì per fare gli interessi della grande impresa, possa anche guardare benevolmente al suo esatto contrario: alle lavoratrici e ai lavoratori. Non si possono servire allo stesso tempo Dio e Mammona… Ma questa è un’altra storia ancora.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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