La questione carceraria è una questione sociale e culturale, prima di essere una questione criminale. Non deve esserci spazio nel dibattito pubblico per tesi che ci riportino a un’idea pre-moderna, violenta e vendicativa della pena. Ripartiamo dunque dalle parole importanti proferite dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, all’indomani della visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: «Mai più violenza. Quegli atti sfregiano la dignità umana che la Costituzione pone come pietra angolare della nostra convivenza civile».
Quelle parole vorremmo diventassero un mantra per tutti quelli che operano, a diverso livello, nelle carceri. Dalle pagine del manifesto lanciamo un appello a tutti gli attori del sistema penitenziario, a partire dai sindacati autonomi di Polizia e da quelli confederali, perché le sottoscrivano a nome delle persone che rappresentano. Tutti, dico tutti, devono essere disposti ad aderire a un patto sulla pena che si fondi su un solo punto: il rispetto pieno, incondizionato, totale dell’articolo 27 della Costituzione, scritto con il sangue e le lacrime di chi ha subito la carcerazione durante il regime fascista.
«Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato», afferma l’enunciato costituzionale. Scriviamolo all’ingresso di tutte le carceri, sottoscriviamolo tutti insieme, associazioni e sindacati. Tutti devono metterci la faccia.
Il carcere non è proprietà dei custodi. Un insegnante di liceo, un professore universitario, un volontario non devono essere tollerati. Devono essere incentivati nell’esercizio del loro prezioso lavoro.
Ripartiamo, dunque, da un patto condiviso che espunga la violenza e la brutalità dai nostri istituti penitenziari.
Per ripartire bene è necessario muoversi su tre piani convergenti: una riforma legislativa che minimizzi l’impatto del carcere, che punti sulle misure alternative, che depenalizzi (a partire dalla droghe) tutto ciò che non sia meritevole di punizione; una riforma di secondo livello che modifichi il Regolamento del 2000 e modernizzi la vita carceraria, a partire dall’istruzione, dalla gestione degli spazi comuni e del tempo, dall’uso sapiente delle tecnologie, dalla riduzione dell’isolamento, dalle relazioni con l’esterno, dalla previsione di codici identificativi per chi ha funzione di polizia; e, infine, una profonda revisione del modello organizzativo, a partire dalla restituzione di una nuova centralità strategica a educatori, assistenti sociali, direttori, e tutti gli altri operatori socio-sanitari.
Negli ultimi due anni, nel nome di un securitarismo diffuso, anti-sociale e anti-storico, c’era addirittura chi chiedeva di cooptare gli educatori nel Corpo di Polizia Penitenziaria. La strada deve essere invece quella di una loro rinnovata autonomia e forza. Ovviamente molto passa da un investimento in assunzioni di persone che per età e entusiasmo siano protagonisti di una stagione di riforme che avvicinino l’essere tragico della pena al suo dover essere costituzionale.