I mutamenti nell’organizzazione del lavoro volti a implementare la precarizzazione, in quanto appare la forma più adeguata a garantire un margine di profitto in una fase di crisi, provocano il venir meno di una visione prospettica del reale, in quanto tutto è appiattito in un’immediatezza priva di prospettive.
È ormai passato oltre mezzo secolo da quando il ritmo di sviluppo mondiale (Pil) è pressoché dimezzato (2,5-3% contro il 5-6% del quarto di secolo postbellico), senza contare le ulteriori crisi del 2008 e la più recente legata alla pandemia, che hanno portato alla recessione l’economia mondiale. Le conseguenze sul lavoro sono ovvie e intuibili, peraltro anche un po’ aggravate dai mutamenti tecnologici che ulteriormente “congelano” i posti di lavoro perduti: anche se va smentita la convinzione comune che siano le nuove macchine e l’informatica – anziché la crisi da sovrapproduzione – a provocare la perdita di posti di lavoro. I mutamenti nell’organizzazione del lavoro volti a implementare la sua precarizzazione, in quanto appare la forma più adeguata a garantire un margine di profitto anche in una fase di crisi, provocano il venir meno di una visione prospettica del reale, in quanto nell’immaginario tutto è appiattito in un’immediatezza priva di prospettive. Si afferma, così, la mera lotta per la sopravvivenza, cioè la semplice possibilità di riprodursi come forza-lavoro. Il dominio della tenebra dell’immediato si riproduce anche al livello della ricerca, che è sempre più portata avanti da lavoratori precari, i quali spesso non dispongono delle risorse necessarie per sviluppare ricerche di ampio respiro. Del resto è sempre meno scontato che un periodo di lavoro precario sia la premessa a forme contrattuali stabili e, comunque, la stabilizzazione è sempre più posticipata e dilazionata nel tempo.
Tale modello si è rapidamente diffuso nel mondo occidentale. Il pubblico impiego, a differenza del lavoro privato, è diventato la culla del precariato. Insomma, quello che doveva essere il simbolo del posto fisso sembra essersi trasformato nel più instabile. A partire dagli anni Ottanta Fmi e Ocse hanno elaborato una strategia di deregolamentazione del mercato del lavoro, che è stata accolta negli anni novanta nella legislazione dei membri della Unione europea che aveva come obiettivo quello di combattere gli alti livelli di disoccupazione che affliggevano gli Stati del Vecchio Continente. In Italia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, è iniziato un processo graduale e frammentato di revisione del corpo di norme del mercato del lavoro vigenti negli anni Settanta nella direzione di rendere più flessibili le regole sul lavoro a tempo determinato o parasubordinato. Ciò ha favorito una notevole segmentazione del mercato del lavoro e l’emergere di una struttura di tutele molto diseguale per segmenti diversi dell’occupazione.
Di fronte all’estendersi planetario del rapporto di capitale, le forme preesistenti di lavoro salariato assumono una parvenza di privilegio. Quest’ultimo si rattrappisce così sulle vecchie posizioni, appena poco più sicure, acquisite in precedenza. In questa maniera, come conseguenza dello sviluppo qualitativo del capitale, all’esercito attivo dei lavoratori “garantiti”, che nelle forme più consolidate appare come aristocrazia proletaria, si affianca un crescente esercito di riserva. Ciò avviene sempre, in ogni crisi, come fenomeno transitorio, di fase e precario, soprattutto nella sua forma stagnante. Da qui promanano quei “nuovi” strati subordinati al capitale totale, in maniera indiretta, sovente ancora in via di proletarizzazione. Essi si trovano spesso spinti, se non costretti, a lottare per il mero ripristino delle condizioni preesistenti, pur di uscire dalle condizioni di declassamento e precarietà in cui la crisi li ha gettati.
Le condizioni della lotta praticabile sono determinate, oggi come sempre, con il rafforzamento imposto dall’epoca di grande trasformazione, a partire dalla riorganizzazione del processo di produzione su scala mondiale. La coscienza di classe si matura percependo come l’azione del capitale sia capace di ridefinire il proprio comando sul lavoro e, funzionalmente a ciò, anche il pieno controllo sul sindacato. Tale lotta procede a senso unico e appare unilateralmente sintetizzata e nascosta nel dispotismo assoluto del capitale sull’organizzazione del processo sociale di produzione e di lavoro: il prototipo cui il sistema capitalistico internazionale può ricorrere per riproporre ovunque il medesimo nuovo ordine corporativo che in Giappone ha già dato così buona prova di sé. La strategia neocorporativa ha portato il sindacato istituzionalizzato, in un crescendo di logoramento, a fianco di Confindustria e governo fin dai contratti del 1973. La cosiddetta svolta dell’Eur ne fu solo la sanzione formale. Dunque già trent’anni prima del Protocollo del triangolo della morte sociale del 31 Luglio 1992 tra padroni, governo e sindacati, iniziava la deriva neocorporativa del sindacato istituzionale. Nondimeno, la stesura e la firma del protocollo sulla politica dei redditi costituisce la sanzione formale di una strategia, tale da rappresentare una sorta di resa confessione e di ammissione di colpa da parte dei sindacalisti firmatari, complici del governo dei padroni. In tal modo il comando sul lavoro non è più esterno, ma interno al rapporto giuridico del contratto. È in siffatto contesto che il toyotismo della flessibilità – cronaca di una morte sociale annunciata – si articola in tutta quella contrattazione lavoristica. Il sistema produttivo è snellito grazie alla crescente flessibilità che viene garantita dall’aggiornamento di alcune procedure. Il padronato può apprestare nuovi regimi di orario, capaci di consentire una turnazione delle fasi del processo di lavoro e una continuità dei cicli di produzione compatibili con l’andamento dei mercati internazionali, cui adeguare la nuova erraticità dell’andamento retributivo. Ancor più sistematico, nell’ottica del toyotismo, è il varo del sistema di lavoro interinale (o a “prestito”, che in Giappone è praticato da anni, gestito direttamente dalle grandi imprese-madre, anziché dalle “agenzie”). Si tratta di un sistema funzionale a destrutturare organicamente il lavoro stabile.
Gli strumenti dell’attacco alle precedenti conquiste del movimento dei lavoratori sono il cottimo (nella forma di salario di partecipazione et similia), l’esternalizzazione e la dislocazione progressiva di fasi della lavorazione attraverso gli anelli della catena collegati tramite i subfornitori in appalto e il lavoro autonomo “eterodiretto”, fino al lavoro a domicilio. Il processo di proletarizzazione, sviluppato ora su scala mondiale, abbisogna di un esercito di lavoro disponibile e rinnovabile di entità sconfinata.
Solo alla fine degli anni novanta, quando la crisi capitalistica diveniva insostenibile e l’organizzazione dei lavoratori estremamente debole, la classe dominante ha potuto legalizzare, anche nei paesi imperialisti, quella forma di lavoro precario secondo le cui modalità, da sempre, l’operaio complessivo eroga la propria attività in cambio di salario.
La piena ripresa del comando sul lavoro da parte del grande capitale monopolistico finanziario, a seguito dell’unificazione del mercato mondiale, è il primo obiettivo che il capitale stesso mira a perseguire, come condizione necessaria per l’eventuale possibile rilancio del processo di accumulazione. In effetti, tutto il lavoro vivo è disarticolato proprio in funzione di una sua ricomposizione capace di massimizzarne la tensione, per consentire al capitale di fruire di tutto il tempo dei lavoratori come tempo di lavoro e di pluslavoro effettivo e, quindi anche del loro intero tempo di vita. I primi “sprechi” a essere eliminati sono appunto quelli delle pause (minuti e secondi) e delle micropause (centesimi e millesimi di secondo) della giornata lavorativa – secondo lo slogan toyotista di “un’ora di lavoro di sessanta minuti” – con risparmi stimati fino al 40%! Gli altri sprechi, relativi a impianti, materie prime, scorte, ecc., vengono risolti per secondi, e acquistano significato solo rispetto ai primi (il just in time funziona solo se il lavoro vivo è già posto sotto comando).
Per quanto concerne l’Italia, con lo scontato appoggio dei sindacati corporativi, nel 1997 il primo governo italiano composto da sedicenti ex comunisti (Prodi I), regalava alla classe dominante italiana il cosiddetto pacchetto Treu che ancor oggi rappresenta le fondamenta della precarietà legalizzata. Le tipologie dei lavori ir/regolari (tempo determinato, tempo parziale, interinale, formazione, nuovo apprendistato, ecc.) varate nel “pacchetto Treu” (sulla ricetta del Fmi approvata dall’Ue) è stato integrato dalla legge 30 impropriamente denominata Biagi, adeguando la legislazione italiana al modello flessibile di organizzazione del lavoro. La cosiddetta legge 30 non ha fatto altro che individuare la forma giuridica più adeguata al concetto di precarietà congiunta di forza-lavoro e capitale.
Sin dal 2005, i contratti di “primo impiego” flessibili o precari sono passati a essere il 41% del totale, superando per la prima volta quelli tradizionali In questa maniera si è svelato anche il ridicolo ossimoro di definire questi contratti come “atipici”. Dopo dodici anni dalla legalizzazione della precarietà, quasi un quinto della forza-lavoro eroga la propria attività seguendo tali condizioni contrattuali. Le stesse contrattazioni collettive tendono a essere messe da parte in nome di contratti flessibili, mutevoli da individuo a individuo.
Nel testo della Commissione Europea, relativo alla comunicazione al Parlamento e altri enti dell’Unione Europea del giugno 2007 a Bruxelles, Towards common principles of flexicurity: more and better jobs through flexibility and security”, la Danimarca, presentava il programma di “flessibilità e sicurezza in un’economia aperta di piccole dimensioni”, per la realizzazione del “lavoro decente”, quale comune “aspirazione dei popoli, riduzione della povertà, democratizzazione delle forze della mondializzazione, affermazione dei diritti umani”. Tralasciando in questa sede il senso evanescente di “lavoro decente”, è significativo sapere che è in quel contesto che si è focalizzato il doppio obiettivo congiunto: flessibilità e sicurezza lavorativa. In tal modo si vanifica il dettato costituzionale, facendo credere a un presunto legame tra flessibilità e sicurezza.
Il modello danese, attuato sin dal 1999, come programma nazionale prevede: 1) preavviso (variabile in base all’anzianità del lavoro) del licenziamento; 2) dispositivi di legge per assegnare automaticamente un posto di lavoro a tempo indeterminato in base ai contratti stipulati; 3) indennità di disoccupazione per lo più a carico dello stato; 4) personale specializzato che segue i casi dei disoccupati; 5) obbligo per il disoccupato di seguire corsi di formazione; 6) penalità amministrative per eventuali rifiuti di lavori proposti dai servizi.
In tal modo si abolirebbe la giungla dei contratti “atipici”, salvo il lavoro stagionale o puramente occasionale, e tutti i nuovi rapporti si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che prevede una protezione della stabilità crescente con il crescere dell’anzianità di servizio.
L’articolo 18 continua ad applicarsi per i licenziamenti disciplinari e contro quelli per motivo illecito, di discriminazione o di rappresaglia. Se invece il motivo è economico od organizzativo, la protezione del lavoratore è costituita da un congruo indennizzo commisurato all’anzianità.
L’esempio danese non solo è difficile o impossibile da esportare, ma non convince neppure nel merito delle cifre relative alla riduzione della disoccupazione [1]. Il ritrovato flessicuro, che è stato fatto proprio dai governi internazionali, anche di centrosinistra, altro non è che il programma corporativo fascista del 1927.
Note:
[1] Cfr. Luciano Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, Roma-Bari 2007.
https://www.lacittafutura.it/editoriali/ritorno-al-precariato