Nei prossimi giorni le aule delle scuole della Repubblica si riempiranno nuovamente di milioni di studenti: otto per la precisione. Otto milioni di giovani che hanno affrontato quasi due anni di pandemia costretti ad una didattica a distanza necessaria ma anche inficiante il rapporto imprescindibile tra insegnante e studente, fatto di una comunicazione diretta, personale che si somma a quella grande palestra di principio della vita personale, pubblica e sociale che è l’interazione tra coetanei, tra persone che condividono gli stessi interessi, che costruiscono insieme una visione del mondo attraverso l’apprendimento.
La scuola pubblica è stata mortificata, nei decenni scorsi, da un impoverimento strutturale dettato dalle regole del liberismo, proditoriamente applicate da tutti i governi, fingendo un interesse pubblico e comune delle forze politiche cosiddette “progressiste“.
In uno dei settori fondamentali della vita sociale, della crescita culturale, civile e morale di un popolo, la presunzione modernizzatrice del PD e dei suoi satelliti, nonché quella di un Movimento 5 Stelle orientato verso il centrosinistra di nuova fattura, si è incastonata alla perfezione con le rivendicazioni più conservatrici e con quelle più esigenti del mercato nel definire i contorni di una scuola che non si distacca dal binomio dell’alternanza col lavoro.
La soddisfazione di Confindustria è notevolmente appagata: il carattere laico della scuola viene meno rispetto alle priorità del capitalismo italiano che, soprattutto in questi tempi di nuova crisi economica, di rilancio della medesima con un sempre maggiore dimagrimento dei salari, non fa che disconoscere il valore intellettivo di tante eccellenze che invece potremmo avere al servizio del benessere comune.
Non ci si può illudere sui prossimi interventi del governo in merito: se lo facessimo, vorrebbe dire che non abbiamo ben presente che ci troviamo innanzi ad un esecutivo a guardia dei rigidi protocolli bancari-affaristici dettati da Bruxelles, della eccezionalità degli interventi monetari messi in campo e di un qualche timore che inizia a manifestarsi mentre si avvicina, piano piano ma inesorabilmente, la data della fine dello stato di emergenza sanitaria del Paese (31 dicembre del corrente anno) e quindi il conseguente riadeguamento dei parametri normativi di bilancio fuori dagli schemi della straordinarietà.
Prima o poi anche la scuola della Repubblica dovrà tornare a fare i conti con le strettoie di un finanziamento pubblico inadeguato, ridimensionato in un bilancio statale in cui vi è posto sempre per ingenti spese militari ma non per una ridefinizione a tutto tondo del rapporto tra istruzione e cittadini che costerebbe allo Stato fior di milioni di euro, ma che garantirebbe alle future generazioni un approccio nettamente diverso da quello odierno tanto con la società limitrofa quanto col resto del mondo.
In questo bilancio liberista e militarista, una percentuale maggiore sarà da quest’anno assegnata alle spese sanitarie: su imposizione della pandemia e non certo per una conversione ideologico-politica ad un ripristino di un anche timido “stato-sociale“. Non c’è alcuna volontà di migliorare le fondamenta sociali del Paese, perché non c’è nessuno spirito egualitarista nella politica del governo: al contrario vi possiamo ritrovare tutti i difetti dei governi politici precedenti e, in più, la rigida volontà del banchiere abituato a fare i conti che, come i fatti, hanno la testa dura. I numeri non si interpretano, altrimenti si finisce per fare veramente politica.
Ed il governo Draghi fa politica soltanto per sorvegliare un disagio sociale che va contenuto nei limiti della protesta No Vax, utile idiozia egemonizzata da frange estremiste di destra, neofascisti e sovranisti di ogni tipologia per squadernare una anche solo timidamente probabile unità di classe.
I giovani, a ben vedere, come si muovono trovano sfruttamento: delle loro tempo, delle loro braccia, delle loro menti. Contratti par time, lavori a chiamata e un diritto allo studio che viene garantito dallo Stato con una regionalizzazione dell’apprendimento e, non di meno, dell’insegnamento. I docenti, in questi anni, hanno assistito ad un arretramento formale, sul piano del metodo, e sostanziale, per quanto riguarda tutti gli strumenti messi a disposizione per esercitare il proprio lavoro in piena autonomia.
I tanti problemi della scuola italiana (tra gli altri, il sovraffollamento delle classi piuttosto sentito in periodo pandemico) non saranno mai veramente affrontati se a fare le riforme dovrà essere un governo che ha come unica stella polare il baricentro della stabilità economica liberista e non invece quella sociale, più prettamente popolare e di massa.
Manca quel poco di tensione solidale che, essendo incompatibile con le priorità draghiane, non è presa in considerazione anche quando timidamente rivendicata dalle parti dell’ala “sinistra” della maggioranza di unità nazionale. Non c’è da accontentarsi: bisogna unire le singole lotte e osservare i problemi su un asse orizzontale che interessa gli stessi interessi di studenti, lavoratori della scuola e insegnanti, nelle specificità reciproche; e su un asse verticale che definisca le priorità da affrontare con le vertenze sindacali, con le rivendicazioni da affidare ad una politica diversa da quella della maggioranza e alternativa anche a quella della finta opposizione sovranista e neofascista.
Per fare questo, però, occorre guardare fuori dal Parlamento e ascoltare voci dissonanti e dissenzienti che non possono essere tacciate di irrilevanza solo perché non interne ai palazzi della rappresentanza istituzionale. Compito di queste voci è, altresì, uscire da questo minoritarismo subito e non voluto, divenendo una utilità per tutti quei giovani che non hanno prospettive di futuro e tutti quei lavori che non ne hanno già nel loro presente.
MARCO SFERINI