L’aumento del 40% del costo dell’energia elettrica e del gas è un pessimo biglietto da visita per la politica economica di un governo che, con il suo ben riconoscibile profilo liberista, non faceva già presagire nulla di buono nella fase autunnale del secondo anno pandemico.
Il ministro della cosiddetta “transizione ecologica” prova a spiegare quasi scientificamente (dal punto di vista economico) il perché di un rincaro che – a suo dire – non è affatto responsabilità dell’esecutivo. C’è un leggero margine di verità: perché, se è vero che il governo non determina i costi delle materie prime che lievitano con l’aumento della domanda dovuto, a sua volta, alla ripresa economica globale e continentale, è però anche corrispondente a verità il fatto che di politiche di incentivo sulle energie rinnovabili non se ne vedono da decenni.
E nemmeno il meraviglioso governo di unità nazionale pare intenzionato a sovvertire la filiera di vecchi fossili (in tutti i sensi) che sono, in larghissima parte, responsabili di un consumo energetico devastante per la nostra aria, tanto per i nostri polmoni quanto per l’ambiente che ci circonda.
Cingolani, infatti, biasima l’aumento ma lo circoscrive nelle ovvie conseguenze dei rapporti anarchici della concorrenzialità di mercato, definendone il perimetro quasi storico nella eccezionalità degli eventi. Insomma, la ricerca di un alibi governativo per evitare una sollevazione di massa che metta insieme No-Vax, No-Pass e No-Aumentigass (e luce) è all’ordine del giorno ma non risolve le problematiche sociali che si intravedono tutte quante con l’inizio di tante attività quotidiane.
Mario Draghi ha garantito che, entro questa settimana, porterà all’attenzione del suo esecutivo la bozza di una riforma fiscale che avrà come princìpi ispiratori la diminuzione delle tasse, partendo dall’abolizione dell’IRAP e da una riforma degli scaglioni dell’IRPEF, intervenendo in particolare su quello considerato “medio” (propriamente del “ceto medio“), ossia di coloro che hanno un reddito che va dai 28.000 ai 55.000 euro annui.
A questa ampia fascia di contribuenti, al momento, si applica una aliquota del 38% che è divenuta motivo di contesa (anche elettorale) tra le differenti anime della maggioranza: chi vorrebbe portarla al 27% (al pari della soglia di tassazione inferiore a quella citata) e chi la vorrebbe invece mantenere intatta, aumentando semmai l’aliquota massima (il 41%) pagati dai grandi percettori di reddito, oscillanti dai 55.000 ai 75.000 euro sempre annui.
Un bel rompicapo, perché, anche sotto la spinta dei rincari che si preannunciano e che andranno a far dimagrire ulteriormente il potere di acquisto di salari e pensioni, Draghi dovrà tenere unita una maggioranza che va dalla timida rivendicazione di una progressività fiscale più accentuata (ma non sia mai che si parli di “patrimoniale“, che era, resta e rimarrà un tabù anche per quelle forze che si fanno definire “di sinistra” all’interno della vecchia maggioranza contiana) fino alla ormai anacronistica rivendicazione della incostituzionale “flat tax“, la tassa piatta.
Se nei mesi scorsi il governo era riuscito, nonostante il già pesante rincaro del 20% sulle bollette, ad evitare l’argomento della politica fiscale e la relativa esposizione della proposta di rimodellamento del sistema economico che ne sta alla base, adesso il tema è improcrastinabile e va gestito provando ad evitare – dal punto di vista di Draghi e dei suoi ministri – una comunicazione autolesionista che, nonostante tutti gli sforzi che verranno fatti, sarà in qualche modo ineludibile: per il semplice fatto che le contraddizioni politiche si possono pure nascondere, ma quelle di natura sociale, quelle che riguardano il portafoglio di ognuno di noi… beh quelle proprio non è possibile occultarle.
Ai temi dell’aumento delle imposte, o della loro propagandata diminuzione per la middle class italiana, si aggiunge un altro annoso problema, un’altra riforma mai portata fino in fondo per il terrore che suscita in tutti i governi che, per loro natura, non vogliono disperdere il consenso e non possono logorarsi tanto: l’IVA.
Studiando un poco le elaborazioni degli uffici di Confindustria (non di un sindacato o di un partito sovietista) ci si accorge di come la tendenza politica di molti Paesi tanto europei quanto extra-continentali, sia quella di intervenire in un aumento della tassazione sulle cose (leggasi anche: elettricità e gas…) piuttosto che delle persone e dei loro redditi. Si preferisce, in una perfetta logica capitalistica moderna ma dal sapore fortemente antico, spalmare gli aumenti delle tasse su un finto piano egualitario.
Sappiamo benissimo che il costo di una merce è uguale solo a sé stesso ma, nel momento in cui viene acquistato, quel prodotto ha un peso differente sul reddito di un operaio e di un imprenditore. Proprio perché il salario è, nella sua scomposizione, qualcosa di ben diverso dal profitto e dai dividendi aziendali. L’IVA, dunque, da imposta indiretta diventa un terreno di scarto delle questioni sociali, dove scaricare le problematiche di classe e renderle indistinguibili, facendo finta che non si aumenti nulla a nessuno in particolare, ma in realtà (ipocritamente) a tutti e nella stessa (altrettanto ipocrita) misura.
Dietro alla percezione di un salario, oggi ci sono molte più incognite rispetto al passato: la stabilità del posto di lavoro è una chimera e, comunque, benché diritto fondamentale per la vita dignitosa di qualunque cittadino che non sia un industriale, un padrone, è l’esatto opposto del ruolo di proprietario dei mezzi di produzione, di proprietario proprio di quel lavoro che viene invece mostrato come “dato” benevolmente da una schiera di filantropi confindustriali o di altra categoria imprenditoriale.
Dunque, il governo Draghi, se metterà mano ad una riforma fiscale degna di questo nome farà delle scelte che saranno chiare. C’è da giurarci, conoscendo l’ex banchiere europeo. Gli si può rimproverare tutto ma non la chiarezza: le misure a protezione dei grandi ricchi e di un ceto medio che è terreno di conquista elettorale di gran parte della sua maggioranza, non saranno nemmeno tanto imbellettate alla povera gente. Si ricorrerà alle formule dei “sacrifici per il bene del Paese“. Il bel Paese dei padroni e il regime di sopravvivenza per (quasi) tutti gli altri.
MARCO SFERINI