Come previsto da Marx assistiamo a un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza in uno dei poli è, dunque, al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe subalterna che produce il proprio prodotto come capitale.

 di Renato Caputo

La flessibilità nell’attività lavorativa subordinata appare oggi, nell’immaginario collettivo, come un destino per chi entra nel mercato del lavoro. Del resto quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento – crescendo di conseguenza la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro – tanto maggiore sarà l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile viene sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza d’espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce, dunque, insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito attivo dei lavoratori, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione, la cui miseria è in proporzione inversa al tormento del suo lavoro.

Peraltro, all’interno del modo capitalistico di produzione, tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese del singolo lavoratore; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano il lavoratore facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro.

Come previsto da Marx assistiamo a un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza in uno dei poli è, dunque, al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe subalterna che produce il proprio prodotto come capitale. Questo è il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica.

Secondo la rappresentazione dominante nei mass media i giovani dovrebbero abbandonare ogni “rigidità”, che rappresenterebbe il vecchio contrapposto al nuovo, un freno allo sviluppo economico. Occorrerebbe rendersi multifunzionali, per adattarsi al dinamismo del mercato, alle esigenze sempre nuove del mercato del lavoro. L’organizzazione del lavoro imporrebbe, sulla base dello sviluppo tecnologico, lo sviluppo della propria professionalità, sfruttandone al meglio le prospettive per sottrarsi alla disoccupazione. Il termine flessibilità è stato maneggiato abilmente nella sua contrapposizione simbolica al termine rigidità, appositamente per far risaltare (in modo truffaldino) un qualcosa di positivo, per nulla reale, bensì falso. I mezzi di comunicazione di massa rappresentano il “flessibile” come ciò che è implicitamente armonico, che ha capacità di adattamento (al nuovo, al dinamismo del mercato, della vita, all’attualità), mentre la “rigidità” viene rappresentata come l’antitesi del progresso, dell’evoluzione, il vecchio contrapposto al nuovo, il freno all’evoluzione economica della società. Se gli squilibri del mercato del lavoro sarebbero imputabili essenzialmente alla rigidità sul versante dell’offerta di lavoro, l’introduzione, nell’ambito del mercato del lavoro di strumenti per facilitare la flessibilità potrebbe essere considerato come uno dei mezzi mirati a incrementare l’occupazione. Secondo una tale concezione la manodopera adattabile a mansioni differenti e pronta a una elevata mobilità territoriale sarebbe indispensabile per la prospettiva di un avanzamento professionale.

Appare dunque possibile parlare di un’estetizzazione della flessibilità da parte della comunicazione mainstream. Al contrario, la rigidità nell’offerta di lavoro, con il suo portato di lacci e laccioli legali e sindacali, rappresenterebbero il vecchio che ostacola lo sviluppo del mercato del lavoro. Si dovevano fare invecchiare i diritti, i salari, i rapporti di forza, gli equilibri, i contratti, le leggi, gli accordi. Bisognava rappresentarli anche brutti, rigidi, ingiustamente e inspiegabilmente ancora operanti, inadattabili alla sinuosità e alla flessuosità del mercato, al suo dinamismo, alla sua elasticità. Bisognava dunque mostrare un “nuovo” che non poteva emergere, un bambino soffocato, impedito a nascere dal “vecchio”. Alla fine non si doveva che desiderare di scrollarsi di dosso il vecchio e il rigido.

La sociologia politica, che non conosce le forme economiche del lavoro, si è molto diffusa sull’individuazione e sulla contemplazione di fenomeni di superficie. A ciò essa si riferisce allorché parla di “nuovi” soggetti sociali, “nuovi” lavori, “nuova” produzione detta immateriale, e via innovando. Anche l’a-sinistra, sull’onda dell’ipnosi ideologica borghese, ha attribuito a tutto ciò un interesse inopportuno e una centralità precaria. Quest’ultima viene artatamente costruita proprio in opposizione e in alternativa all’analisi di classe e alla centralità del lavoro salariato produttivo. Si osservi che, proprio rispetto a quest’ultimo, anche la corretta collocazione del lavoro improduttivo riacquista importanza e pregnanza attuale. L’eterno obiettivo padronale di dividere per comandare meglio è così più facilmente raggiungibile. Lo è, da un lato, nei confronti di questi soggetti del “nuovo”, lasciati allo sbando e alla disperazione di un’improbabile rincorsa al potere, in un ruolo di protagonisti che non può competere loro entro la legge del valore sviluppata nel modo di produzione capitalistico. Dall’altro, lo stesso obiettivo si manifesta nei confronti della classe operaia attiva, rinchiusa gelosamente, quale produttrice del valore, nella riserva di caccia corporativa del riformismo.

Tuttavia, se la flessibilità può comportare dei vantaggi nei lavori mentali, creativi e decisionali, in altri casi divenendo precariato porta un numero crescente di persone a lavorare per ottenere condizioni di esistenza ridotte al minimo. Su tali basi viene definita la ricollocazione del ruolo lavorativo di ciascuno, nel processo di lavoro ristrutturato su scala mondiale, mediante nuove gerarchie nella divisione del lavoro, non solo sui posti di lavoro, ma nell’intera società: produzione delle conoscenze, lavoro mentale e decisionale rispetto a subordinazione di lavoro fisico ed esecutivo. La ristrutturazione su scala globale del processo lavorativo comporta una nuova divisione del lavoro che produce un numero ristretto di lavoratori specializzati garantiti, atti al lavoro mentale creativo e decisionale, di contro a una crescente massa di lavoratori costretti a lottare giorno per giorno per ottenere delle condizioni di esistenza minime. Per questi ultimi si corre il rischio che le norme giuridiche che vietano all’assunzione ogni arbitrio rispetto alle discriminazioni di genere, razza, etnia siano aggirate da una prassi formalmente legale.

D’altra parte l’abbandono della “rigidità” comporta, per esempio, la fine del monopolio pubblico del collocamento sul mercato del lavoro. In tal modo le aziende stipulano un contratto di fornitura di manodopera per il solo periodo necessario con agenzie interinali, che lucrano sulla differenza fra quanto pagano i lavoratori che affittano rispetto al contratto stipulato. Nell’attuale contesto capitalistico, pertanto, il lavoro deve piegarsi alle esigenze assolute della ristrutturazione organizzativa, sia materialmente per il tramite dell’estorsione di una crescente e plurima flessibilità, sia mediante la persuasione ideologica della “falsa coscienza”. Qui si è in quell’“ameno” ambiente toyotista che altrettanto ameni e virtuali pensatori, nostrani o foresti, si compiacciono di chiamare “postfordista”. Per costoro il lavoro cognitivo-creativo-immateriale-flessibile, ciò che loro stessi postmodernamente definiscono postindustriale, sarebbe esente da tali rischi di tormento psicofisico. Si dà il caso, viceversa, che l’organizzazione del tempo di lavoro di coloro che sono stati i lavoratori “a vita” stile giapponese sia stata chiamata la “via del karoshi”, la strada per morire di troppo lavoro. 

L’economia italiana sommerge una forte presenza di attività produttive di piccole dimensioni, spesso non registrate, e un mercato del lavoro in cui la quota di lavoratori non regolari, nascosti al fisco e agli istituti di previdenza, o non osservabili direttamente dalle statistiche, è alta e tendenzialmente crescente nel tempo. In Italia il mercato del lavoro sino alla liberalizzazione degli anni Novanta era sottoposto al regime del collocamento obbligatorio gestito da uffici pubblici. Tale regime era regolato dalla legge 29 aprile 1949, n. 264, sottoponendo la trasgressione di tale regime a sanzioni penali. Si pensi che l’art. 11, primo comma, della legge vietava l’esercizio della mediazione tra offerta e domanda di lavoro subordinato, anche quando tale attività era svolta gratuitamente. L’art. 1, primo comma, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, in particolare vietava la mediazione e l’interposizione nei rapporti di lavoro; l’inosservanza di questa norma comportava, in particolare, l’applicazione di pesanti sanzioni penali. Il divieto dell’attività di collocamento privata e della mediazione di lavoro interinale aveva un carattere pubblicistico, ed era posto a tutela dei lavoratori e dell’economia nazionale. Tale monopolio era destinato però a scontrarsi con gli articoli 82 e 86 del Trattato della Comunità Europea, poiché la giurisprudenza comunitaria qualificava (e qualifica tuttora) gli uffici pubblici di collocamento come impresa, soggetta agli obblighi di libera concorrenza, anche se svolgono attività nell’interesse economico generale. Essi, in quanto titolari di un monopolio legale, di un servizio di collocamento in esclusiva, collocati quindi in posizione dominante in un mercato comune, violavano tale regola. Tale posizione dominante venne considerata illegittima e anticoncorrenziale e l’Italia fu sanzionata per aver creato delle limitazioni e delle storture nel mercato del lavoro, poiché si mostrava palesemente inadeguata e non in grado di soddisfare la domanda di lavoro, non consentendo ai privati di svolgere la medesima attività. Venne così a sgretolarsi il sistema che aveva regolato per circa 40 anni, dal 1949 con la legge n. 264 (ma anche prima se si considera che durante il fascismo il sistema era sostanzialmente improntato sulla stessa impostazione), il monopolio pubblico del collocamento del lavoratore, proprio attraverso l’istituzione del lavoro interinale da parte della legge n. 197/1996. Con l’introduzione del concetto di somministrazione del lavoro, che ha sostituito il lavoro interinale, l’azienda di lavoro interinale è diventata “agenzia per il lavoro”! Rimane in ogni caso valido lo schema precedente: il rapporto di lavoro in questione non è fra due agenti (datore e lavoratore) ma fra tre (somministratore – in questo caso agenzia per il lavoro –, lavoratore, azienda). Diversamente dal lavoro interinale, la somministrazione tramite i Contratti collettivi di lavoro è stata estesa dalle imprese private anche alle Pubbliche amministrazioni

https://www.lacittafutura.it/editoriali/l%e2%80%99estetizzazione-della-flessibilit%c3%a0

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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