l caso dei rincari sulle bollette è solo un “sintomo” di una crisi di sistema più ampia. I grandi summit internazionali non fanno che rispondere agli interessi delle grandi multinazionali del fossile, che è urgente delegittimare

Si scende in piazza per la giustizia climatica. Lo si fa per ribadire che, dal punto di vista ecologico, non esiste reale cambiamento che non implichi anche un radicale ripensamento dei nostri stili di vita e, soprattutto, del sistema globale di produzione e approvvigionamento energetico. L’oligopolio delle aziende fossili è un concentramento di potere che non solo produce diseguaglianze ma anche devastazione di territori e comunità.

L’annuncio di un possibile rincaro nelle bollette da parte del ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani, avvenuto due settimane fa, è allora un “sintomo” tangibile di un meccanismo generale che sembra sempre più prossimo a raggiungere il suo punto critico. Abbiamo provato ad analizzare questo meccanismo, e le sue conseguenze sulle nostre vite, con Alessandro Runci di Re:Common, associazione che da tempo indaga e denuncia i “crimini” contro la giustizia climatica.

Cingolani ha annunciato un rincaro delle bollette che ha creato molto scalpore. Che cosa ci dice tutto ciò rispetto al sistema di approvvigionamento energetico globale?

È interessante notare come questi temi diventino immediatamente “mainstream” nel momento in cui impattano sulla nostra vita quotidiana. Ma ancor più interessante è osservare il modo in cui il ministro ha subito indicato come responsabile del rincaro i costi associati alla cosiddetta “transizione ecologica”: in pratica si sta cercando di far passare il messaggio che l’ambientalismo, la riconversione dell’economia energetica, ecc. siano “cose per ricchi”. Non è una sorpresa: già a luglio l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi aveva espresso concetti simili, dichiarando che «la transizione energetica nel sistema industriale sta creando la morte».

Il bello è che hanno ragione. Misure come il green deal stanno effettivamente scaricando i costi della lotta al cambiamento climatico sulle fasce più deboli, rendendo la loro vita più difficoltosa (come vediamo anche dai rincari in bolletta). La domanda centrale allora è proprio questa: chi deve pagare la transizione ecologica? È evidente che debbano farlo precisamente quelle società, come Eni, che al contrario controllano attraverso un oligopolio di fatto il sistema energetico, da cui traggono il massimo profitto.

Non esistono soluzioni a livello nazionale quindi?

Il problema non è di ordine tecnologico, ma di sistema. Passare semplicemente alle rinnovabili non risolverebbe quasi nulla, perché si riproporrebbe la questione di chi controlla il mercato e come. Le narrazioni emergenziali, invece, tendono a farci credere che per uscire dalla crisi esistano risposte semplici che non mettono in discussione il quadro più generale, quando l’assunto da cui partire dovrebbe essere esattamente l’opposto, e cioè che non abbiamo strade sicure da percorrere davanti a noi. Occorre dar vita a una molteplicità di percorsi e iniziative diverse, iniziare a parlare concretamente di cosa voglia dire costruire una “democrazia energetica”, delle “comunità energetiche”.

Se guardiamo anche solo all’Europa, vediamo che c’è una grossa percentuale di persone che vive appunto in condizioni di cosiddetta “povertà energetica”, che ha difficoltà negli approvvigionamenti. Come possiamo dare maggiore visibilità a queste persone? Perciò credo che sia fondamentale riuscire a costruire alleanze più ampie e “interfacciarsi” anche con temi che, se a tutta prima ci sembrano magari speculazioni astratte, hanno poi ricadute molto concrete.

Che ruolo possono giocare proteste come quella di oggi?

È importante iniziare a delegittimare quei soggetti – quali appunto sono Eni, Snam o Enel – che si rendono responsabili di devastazioni territoriali in tutto il mondo. Si tratta di attori che hanno sì sede in Italia, ma che possiedono un potere ben più ampio di quello del nostro stato. Quando parlo di costruire alleanze mi riferisco dunque alla necessità di mettersi in contatto ed essere solidali con le comunità che vengono maggiormente impattate da un tale potere. È evidente che per questo serve una strategia precisa e che gli scioperi del venerdì o le varie petizioni on-line non sono sufficienti.

Ciononostante, le proteste sul clima hanno aperto negli ultimi anni uno spazio di conflittualità enorme, che sta assumendo una dimensione non solo europea ma globale. Il nostro compito è arricchire la narrazione sulla giustizia climatica di elementi nuovi e, in questo senso, penso che la questione dei rincari nelle bollette possa essere un ottimo gancio, perché mostra come non sia solo un problema di emissioni ma anche di stili di vita. Dovremmo delineare collettivamente il significato che diamo a un termine come “transizione ecologica” e riporre al centro la questione di chi decide dei territori. Siamo di fronte a una scelta: shock e crisi come quelli attuali non sono i primi e non saranno di certo gli ultimi.

Intanto continuano i summit internazionali come Cop26. Non c’è da aspettarsi nulla di buono da queste iniziative?

Pensiamo solo a una cosa: in Italia, giusto per fare l’esempio del nostro paese, la partecipazione a questi summit viene coordinata attraverso una cabina interministeriale in cui sono presenti i rappresentanti di tutte le compagnie fossili sul territorio. Di quali interessi dovrà poi rispondere chi si reca agli incontri internazionali sul clima? È chiaro allora che, finché esistono questi interessi (che da noi sono radicati da oltre settant’anni a questa parte) anche il governo più benintenzionato sulle questioni climatiche avrà poco margine di manovra. Oltretutto, siamo ormai alla 26esima edizione del summit, mi sembrano sufficienti a dirci che forse non sono lo strumento giusto.

Ribadisco, realtà come la Cop26 vanno delegittimate. La conflittualità aperta dalle proteste sul clima ha prodotto una controreazione da parte del potere, tale per cui si stanno diffondendo sempre più narrazioni e discorsi riconducibili a una sorta di “dottrina della tecnologia verde” che non mette minimamente in discussione il sistema. È una soluzione “comoda”, che non implica cambiamenti sostanziali e perciò può fare molta presa sulla popolazione. Ma continueremo a contestare appuntamenti e iniziative di questo tipo, dicendo che non ci stiamo più a farci raccontare favole. Chi sta “in alto” non ha né la forza né la volontà di voltare pagine e sinora ha prodotto solo fallimenti.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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