«Com’è potuto avvenire che un intero paese sia senza accorgersene eticamente e politicamente crollato di fronte a una malattia?».[1]
Questa è la domanda che poneva, lucidamente, Giorgio Agamben in un articolo datato 14 aprile 2020, alla quale a mio avviso non è stata ancora data una risposta adeguata.
Come è potuto avvenire – aggiungo io – che si sia passati, a partire dalla proclamazione dello stato di emergenza (il 31 gennaio 2020), in modo così repentino e convulso dalla open society al lockdown? Come è potuto avvenire che dalla libera circolazione delle persone e dei capitali siamo giunti al divieto di spostamento al di fuori del proprio comune e alla certificazione di ogni movimento sul suolo nazionale?
Come siamo potuti passare, chiedo ancora, da “quella gioiosa spensieratezza che sembra divenuta d’obbligo”[2] dell’era pre-covid, al clima di paura, terrore quotidiano e distanziamento sociale che ha reso le nostre esistenze un campo di guerra con “un nemico invisibile”?
Un così radicale capovolgimento è un fenomeno che, a mio avviso, va oltre le sole ragioni medico-scientifiche o tecnico-amministrative. È qualcosa che ci coinvolge in quanto società e direi come civiltà occidentale in toto. La tesi che cercherò di argomentare in questo articolo è che ad essere venuta in luce è l’ombra stessa del neoliberismo o se volete della post-modernità.
I. Il ritorno del rimosso
L’opera letteraria che più di tutte ci ha fatto capire il concetto di ombra è il capolavoro di Stevenson, “Lo strano caso del Dottor Jekyll e del signor Hyde”. Hyde in inglesevuol dire “nascosto”, e costituisce tutto ciò che Jekyll rifiuta di vedere di sé, tutto ciò che lo ripugna della propria anima. Jekyll incarna cioè quella che Jung chiama l’unilateralità della coscienza, identificatasi con un modello di razionalità scientifica e di moralità puritana che è incompatibile con la brutalità e la violenza di Hyde, con i suoi bassi istinti, ma anche con una certa vitalità e immediatezza che la sua parte nascosta esprime.
Hyde è dunque l’ombra di Jekyll, rimossa e repressa per tutta la vita, che prende progressivamente il sopravvento e porta ad un esito catastrofico, con la morte stessa del protagonista.
Anche il grande drammaturgo norvegese Henrik Ibsen ci stava profeticamente avvertendo, in quegli anni di fine ‘800, che il mondo della maschera borghese, poggiato su quelli che lui chiamava “I pilastri della società”, stava crollando. Le sue opere raccontano come da questo sfaldamento emergano i giochi meschini delle “personalità encomiabili” e le menzogne che permeano sia le relazioni sociali che familiari.
L’ombra della modernità illuminista, borghese, positivista e liberale è esplosa poi infatti drammaticamente nel ‘900, come hanno compreso, tra gli altri, Adorno, Horkheimer e Wilhelm Reich. In “Dialettica dell’Illuminismo”, pubblicato nel 1944, i primi due scrivono:
«Mentre attitudini e conoscenze dell’umanità vanno differenziandosi con la divisione del lavoro, essa è risospinta verso fasi antropologicamente più primitive; poiché la durata del dominio comporta, con la facilitazione tecnica dell’esistenza, la fissazione degli istinti ad opera di una repressione più forte. Dove l’evoluzione della macchina si è già rovesciata in quella del meccanismo del dominio, e la tendenza tecnica e sociale, strettamente connesse da sempre, convergono nella presa di possesso totale dell’uomo, gli arretrati non rappresentano solo la falsità. La maledizione del progresso incessante è l’incessante regressione»[3].
Wilhelm Reich, nel suo “Psicologia di massa del Fascismo”, del 1933, vedeva molto bene che «negli ideali etici e sociali del liberalismo si possono riconoscere i tratti dello strato caratteriale superficiale, caratterizzato dall’autocontrollo e dalla tolleranza. Questo liberalismo accentua la propria etica al fine di soffocare “il mostro nell’uomo”, il secondo strato delle “pulsioni secondarie”, “l’inconscio” di Freud. Il liberale deplora e combatte il pervertimento caratteriale umano con norme etiche, ma le catastrofi del XX secolo hanno insegnato che non ha combinato gran che»[4].
II. La società dei consumi
Dopo la fine della seconda guerra mondiale abbiamo assistito, in Occidente, decennio dopo decennio, a un passaggio decisivo da una società di tipo repressivo/coercitivo, centrata sulla dicotomia permesso/vietato, a una di tipo permissivo, la cui dialettica fondamentale è quella invece fra possibile e impossibile, fra funzionale e disfunzionale.
I valori e i modelli ritenuti fondamentali nelle società di tipo repressivo/coercitivo, quali appunto l’autocontrollo, la sobrietà, la razionalità e l’ordine, hanno lasciato il campo a quelli della società dei consumi: individualismo, godimento, performance, emotività, spontaneità, laissez faire. È tutta una logica dell’illimitato a divenire egemone, qualificata dalla possibilità continua di migliorarsi e di crescere; è come se la terra fosse divenuta una sorta di giardino delle delizie, che a margine però, già dagli anni ’80, inizia a far emergere quei mostri che Hieronymus Bosch dipinge ai lati della sua opera. Scrive a tal proposito Massimo Recalcati:
«In questo universo senza Dio non c’è salvezza, non c’è orizzonte, non c’è desiderio. Tutto si consuma nel chiuso claustrofobico della volontà di godimento. Il culto del godimento e la logica del suo puro dispendio sono divenuti un regime di amministrazione e manipolazione biopolitica dei corpi sotto la nuova Legge dettata dal discorso del capitalista: il sesso compulsivo, l’affermazione di una Libertà senza Legge, la ripetizione eternizzante di tutti gli scenari sadiani mostrano che il nostro tempo ha fatto del godimento un imperativo che anziché liberare la vita la opprime rendendola schiava». [5]
L’energia libidinale non viene più repressa né castrata, ma diventa l’elemento capace di oliare l’ingranaggio del consumo inesausto dei beni e dei servizi, e al contempo della spinta continua all’auto-miglioramento degli individui, mediante l’ideologia del successo e dell’immagine; mentre permane invincibile, come una coltre invisibile, quella che Heidegger chiamava la Machenshaft, la macchinazione universale, la gabbia d’acciaio di Weber, ovvero il mondo e la nostra mente ridotti, in definitiva, a un foglio di calcolo excel.
Paradossalmente il neoliberismo porta a quella omologazione tirannica (non solo per esempio nel modo di vestire, ma anche delle scelte alimentari, dell’architettura urbana, dei format televisivi, dei comportamenti) che originariamente era il contrappunto dell’emancipazione individuale.
La società dello spettacolo, dove ognuno è al contempo attore e spettatore, in realtà trasmette un film muto perché sordo, ab-surdus, se è vero, come ci ha insegnato Heidegger, che “ogni dire è un udire”. La cena al ristorante subito fotografata, o il panorama mozzafiato, o ciò che stai pensando o sentendo divengono istantanee di un film senza più trama e senza più protagonisti, ma solo comparse, sempre più simili le une alle altre.
Nel momento in cui tutto diventa desiderabile perciò, è il soggetto in quanto tale a non essere più oggetto di desiderio, e quindi a svuotarsi di significato. Scrive Mark Fisher:
«Questa combinazione di obiettivi di mercato e quelli che burocraticamente vengono chiamati target è un tipico tratto dello “stalinismo di mercato” che attualmente regola i servizi pubblici. Ad aver proliferato è una nuova burocrazia fatta di “obiettivi” e di “target”, di “mission” e di “risultati”, e questo nonostante tutta la retorica neoliberale sulla fine della gestione top-down».
A tutto questo sistema, prosegue Fisher, «gli studenti in genere reagiscono cedendo a un’inerzia edonistica (o anedonica): e cioè a uno stato di soffice narcosi, al confortevole oblio della Playstation, alle maratone notturne davanti alla televisione, alla marijuana». [6]
III. L’età dell’immaturità
Uno dei maggiori scrittori polacchi del secolo scorso, Witold Gombrowicz, nel suo romanzo più celebre, dal titolo alquanto bizzarro, “Ferdydurke” (pubblicato nel 1937), ha coniato un’espressione a mio avviso perfetta per comprendere il nostro tempo, ovvero “l’età dell’immaturità”.
«Il protagonista di Ferdydurke è un trentenne che, nel mezzo del cammino della sua vita, si trova, come in un incubo, sbalzato indietro nel mondo dell’infanzia; alunno di una ridicola classe scolastica. Gingio(Józek) cerca di ribellarsi a questa degradazione, ma poco alla volta si accorge che essere un bambino non è poi tanto spiacevole. L’immaturità ha i suoi vantaggi e, del resto, in un mondo che sta andando a pezzi, sembra essere un rifugio, una nuova grottesca identità.
Inoltre essere infantile a tutti gli effetti mette in luce l’infantilità degli adulti, la loro penosa e ridicola voglia di apparire giovani, nonostante la decadenza fisica e mentale. La crisi della cultura europea e dei suoi valori, alla vigilia della seconda guerra mondiale, trova in Ferdydurke una rappresentazione ironicamente spietata».[7]
La cosa interessante del romanzo è che, in un crescendo di entropia, la condizione surreale e caotica di questo trentenne immaturo, che non vuole crescere, si trasforma in una violenza arbitraria e quasi giocosa, improvvisata direi.
L’intuizione fondamentale di questa opera, così come fu prima ancora di J.M Barrie, autore di quello che all’inizio era un testo teatrale, ovvero Peter Pan or The Boy Who Would Not Grow Up, è che l’immaturità viene a caratterizzarsi come una condizione sempre più endemica, come una sindrome del nostro mondo civilizzato, industrializzato e politicamente avanzato.
L’isola che non c’è cattura simbolicamente l’oggetto del desiderio di una generazione crescente di immaturi, sia esso il mondo del virtuale, dei paradisi artificiali, o il turismo di massa. È questa la dolce vita della civiltà occidentale degli ultimi decenni, ipnotizzata da un’esistenza plasmata sempre più come una sit-com (situation comedy), i cui modelli sono in fondo personaggi dello spettacolo o “sportivi di successo”.
Ma che cosa nascondeva questa euforia collettiva, questa grande cecità? «Tanta allegria»- scrive sempre Fisher- «può essere conservata solo in un’assenza pressoché totale di riflessività critica, e solo se si è capaci di assecondare in maniera cinica ogni singola disposizione proveniente dall’autorità burocratica».[8]
«Ogni sistema totalitario è una macchina che bambinizza gli adulti. Ciò che viene proposto al popolo è dimenticare la libertà, la propria individualità, tornare bambini, smettere di occuparsi delle grandi questioni politiche. Soddisfazione dei bisogni materiali in cambio del sacrificio della libertà».[9]
Per tornare all’inizio, è come se a poco a poco l’ombra, Hyde, fosse divenuta la maschera, sempre meno trasgressiva e quindi sempre più violenta e acefala; e viceversa la maschera fosse divenuta l’ombra della società neoliberale, in realtà totalitaria, stalinista appunto. Il rigore, la sobrietà, l’austerità, il dogmatismo scientifico prendono di nuovo il sopravvento.
IV. L’ombra del neoliberismo
La società neoliberale, volendo rimuovere il principio di realtà che connota l’esistenza umana, lo ha fatto ritornare a poco a poco in modo onnipervasivo in ogni ambito della vita. Ci siamo illusi di avere costruito il migliore dei mondi possibili, il più progredito dal punto di vista tecno-scientifico, economico e democratico. Ci siamo illusi che l’essere umano fosse un agente razionale che massimizza il profitto e il piacere, e che bastasse comprendere intellettualmente i principi morali e costituzionali di una società equa per realizzarli efficacemente.
L’ombra del neoliberismo è l’autoritarismo, l’intervento statale in ogni dimensione dell’esistenza, a patto sempre che non contrasti l’ordine oligarchico dei mercati, la paura e il terrore irrazionali, l’interruzione coatta di ogni attività economica locale. Ciò che è puntualmente avvenuto. Dalla perdizione asinesca del Paese dei Balocchi siamo passati, senza soluzione di continuità, a qualcosa di simile alla “Repubblica dei Santi”, ovvero la Ginevra riformata da Calvino nel 1541, dove vennero emanate delle ordinanze che comportavano “la proibizione delle osterie, dei balli. (..) E prevedeva pene severe per ogni infrazione alla dottrina e alla morale”.[10]
La democrazia neoliberale a poco a poco è caduta in un immanentismo senza più direzione teleologica, con l’unica narrazione di non avere più narrazioni. Alla fine della storia ha sostituito la storia(infinita) della fine, dove l’infanta imperatrice, come nel racconto di Michael Ende, è afflitta da un male sconosciuto e rischia di morire, perché un’entità informe chiamata Nulla ha incominciato a espandersi nel regno, inghiottendo intere regioni e facendole sparire del tutto.
Il nostro mondo, dominato dall’archetipo di Dioniso, nel quale, come ci ha detto Nietzsche, “Nulla è vero e tutto è lecito”, ha fatto esperienza anche della sua natura ambivalente. Dioniso infatti, paradossalmente, è un Dio che non ama l’empietà[11], e le Baccanti al suo seguito sono in realtà caste.
Dioniso dice di sé di essere un dio assennato, in un dialogo con Penteo, mentre ad essere dissennato è quest’ultimo, l’unico che scorge il pericolo di un dissolvimento di ogni forma e legalità nel flusso indifferenziato della vita, e che alla fine della tragedia viene sbranato dalle donne tebane invasate. Dioniso è cioè un Dio della morte, del sacrificio, non della vita.
La lezione che ancora non vogliamo ascoltare è perciò che, come scrive Alain Ehrenberg, «all’interno della persona esiste, oggi come ieri, un lembo di inconoscibile, un lembo che magari può riplasmarsi ma non può sparire del tutto – perché fa parte, costitutivamente, dell’uomo»[12].
Un intero paese è crollato eticamente e politicamente di fronte a una malattia perché poggiava su fondamenta di argilla, costruite illudendosi che fosse sufficiente educare intellettualmente i cittadini affinché si edificasse una democrazia. Perché parallelamente la società neoliberale è ha dato forma a quello che molti ritengono essere il più potente sistema di totalitarismo della storia umana, capace di plasmare e cambiare le coscienze a livelli di profondità inauditi. Questa fase drammatica della storia umana ci provoca perciò ad un cambio di sguardo radicale, e ad una rivoluzione democratica che abbia come fondamento una visione non riduzionistica dell’essere umano. Stiamo forse comprendendo, drammaticamente, che esiste qualcosa che scavalca, volenti o nolenti, la nostra ragione?
[1] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-una-domanda
[2] Z.Baumann, Le sorgenti del male, a cura di Yong-June Park, p.20.
[3] Max Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, p.43.
[4] W. Reich, Psicologia di massa del Fascismo, p.13.
[5] M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, P.24.
[6] Mark Fisher, Realismo Capitalista, p.61/3
[7] Francesco Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, p.97.
[8] M. Fisher, Realismo Capitalista, p.111.
[9] F. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, p.161.
[10] C. Capra, Storia moderna, P.121
[11] Euripide, Le Baccanti.
[12] A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi, Depressione e società, p.319.
Di: Francesco Marabotti and L’Indispensabile