Intervista a Giancarlo Caselli sulla “Sentenza Stato-mafia”
Dott. Caselli, è di alcuni giorni fa un’importante pronuncia della Corte d’Assise d’appello di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. La Corte ha assolto il senatore Marcello Dell’Utri, “per non avere commesso il fatto” e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno “perché il fatto non costituisce reato”, mentre ha ridotto a 27 anni la pena per il boss Leoluca Bagarella, confermando, poi, i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Qual è la sua analisi?
Sarà la motivazione, anche questa volta, che consentirà di valutare l’attendibilità e coerenza delle scelte operate in appello. Per ora si può rimarcare che tutti gli imputati (mafiosi, politici e ufficiali del ROS) sono stati riconosciuti come “trattativisti” dal GIP e condannati dalla Corte d’Assise di Palermo in primo grado. In appello però le condanne vengono confermate solo per i mafiosi, mentre del politico dell’Utri si dice che non ha commesso il fatto e dei CC che il fatto non costituisce reato. Calogero Mannino, uno dei rinviati a giudizio, sceglie il giudizio abbreviato e viene assolto fino in Cassazione, con una sentenza che è possibile abbia avuto un peso rilevante nel giudizio d’appello riguardante gli altri imputati.
Sia come sia, c’è comunque una sorta di “fil rouge” che sembra legare i processi di mafia ad “imputati eccellenti”, per le “singolarità” che in essi si riscontrano rispetto agli altri processi. E’ possibile che ciò dipenda dalle obiettive maggiori difficoltà probatorie che si hanno quando si tratta di “relazioni esterne”, per loro stessa natura tenute quanto più possibile “riservate”, e comunque protette da ben organizzate campagne negazioniste. A volte però è sembrato che vi fosse spazio anche per uno strano “virus”, quello che porta a riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere legale, per poi perseguire, nelle prassi giudiziarie, solo l’ala militare dell’alleanza.
Un virus che si spera in via di estinzione, mentre è certo che sono riprese (attraverso letture superficiali e semplicistiche – a dire davvero poco – del dispositivo della sentenza d’appello del processo “trattativa”) le aggressioni ai magistrati giudicanti che in primo grado non hanno assolto e prima ancora agli inquirenti che hanno sostenuto l’accusa. Si sprecano parole “forti”: schifezza, farsa, caccia alle streghe, crollo di accuse assurde, boiate pazzesche, teoremi totalmente inventati, terrapiattismo… Insulti beceri di cui non val la pena discutere. Merita invece attenzione la tesi che contesta ai magistrati di voler ricostruire gli accadimenti storici in ottica pregiudizialmente strumentale all’individuazione di responsabilità penali, così forzando le interpretazioni storiografiche. Tesi che riecheggia le strambe parole di quel procuratore generale presso la Corte di Cassazione che, nel processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della corte di cassazione”. Come a dire che non è una novità la tendenza ad escludere la competenza dei magistrati per certi accadimenti di mafia.
Lei parlava di un fil rouge che lega fra loro i processi di mafia a personaggi politici. Che aspetti comuni riscontra nei “processi politici” recenti?
Il fil rouge che lega tutti i processi “politici” riguarda, in particolare, le “singolarità” e l’iter assai tortuoso che spesso si riscontrano. Qui i contrasti interpretativi si fanno roventi; l’accertamento della verità può diventare un sesto grado; i percorsi processuali a volte ricordano… le palline del flipper; le sentenze talora sembrano “spezzatini” (tipico il caso Andreotti, riconosciuto responsabile per aver commesso un reato commesso anche se prescritto, ma solo fino al 1980, poi non più). Ci sono ribaltamenti nelle varie fasi di giudizio, ma nel bilancio complessivo delle decisioni finali tra assoluzioni e condanne sono queste che prevalgono (per una verifica rinvio al libro “Lo stato illegale” da me scritto con Guido Lo forte per Laterza). Per altro sempre – sempre! – i fatti portati a sostegno dell’accusa sono stati riconosciuti come effettivamente accaduti. Quindi nessun teorema, nessun accanimento pregiudiziale, nessuna persecuzione. Nonostante questo dato di realtà, molti hanno parlato di processi buoni solo per mettere alla gogna personaggi eccellenti, capaci di ottenere condanne solo sulla stampa; di mala-gestione dei processi “politici”; di un colpo micidiale inferto alla lotta alla mafia come impostata da Falcone (a volte malamente tirato in ballo, con una specie di tavolino spiritico-giudiziario, per sostenere la tesi, indimostrata e indimostrabile, che lui certi processi non li avrebbe fatti).
Il fil rouge, inoltre, spesso si è dipanato con campagne organizzate di aggressioni senza risparmio di mezzi o energie. Campagne che sembravano avere come obiettivo non “più”, ma “meno” giustizia e che in ogni caso valutavano gli interventi giudiziari sulla base dell’utilità o meno per la propria cordata, di certo non secondo criteri di correttezza e rigore.
Tornando alla sentenza della corte d’assise di Palermo nel processo “trattativa” ( in rispettosa attesa della sua motivazione) e alle polemiche scatenate contro i Pm dell’accusa e i magistrati giudicanti che in precedenza avevano deciso diversamente, credo che non sia per niente giusto ridurli a poltiglia maleodorante – esercizio che sembra invece appassionare molti – per il fatto di aver coraggiosamente esercitato le loro funzioni affrontando con spirito di servizio e senso dello stato un caso che fin dall’intreccio inaudito dei soggetti indicati nel capo d’accusa è risultato di delicatezza e complessità assolute.
Criticare è un conto; oltraggiare e insultare con parole da bar chi ha fatto il suo dovere è ben diverso.
Quali sono stati i connotati principali della lunga stagione dei processi di mafia che hanno preceduto quello sulla trattativa?
Cosa nostra è criminalità organizzata non soltanto di tipo gangsteristico-predatorio. All’elenco sconfinato delle attività di tale categoria (droga; rifiuti tossici; estorsioni; appalti truccati…) si devono aggiungere quelle, del pari criminali, che si collocano sul versante delle “relazioni esterne”. Vale a dire l’intreccio osceno (fuori scena, nascosto) di interessi e affari comuni tra mafia e pezzi del mondo “legale”. La vera spina dorsale del potere mafioso, che spiega perché la mafia appesti ancora il nostro paese un paio di secoli dopo i suoi esordi. Nessuna banda di “semplici” gangster ha mai potuto realizzare un successo simile.
Ma se la forza della mafia è in quest’intreccio inestricabile, ne consegue che il contrasto alla mafia deve colpire ambedue i versanti: quello “militare” e quello lato sensu “politico”. Altrimenti, risparmiando gli imputati “eccellenti”, si userebbe loro un trattamento privilegiato, e sarebbe – oltre che illegale – disonesto e vile.
La magistratura palermitana del dopo stragi, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato questa scelta per non macchiarsi di vergogna. Ed ecco – oltre ai processi contro Salvatore Riina e soci – vari processi contro imputati eccellenti: da Andreotti a Dell’Utri, per ricordare soltanto due casi
Di: Francesca Faienza and Gian Carlo Caselli