Astensione e crollo del progetto leghista salviniano hanno caratterizzato la tornata elettorale, mentre il Pd aspetta il ballottaggio romano per portare a termine l’impresa e la figura di Calenda appare sempre più decisiva (non solo a Roma)

Il primo dato che balza agli occhi è l’inesorabile caduta dei votanti, ormai scesi nelle grandi città sotto il 50%, astensione amplificata nelle periferie e non c’è bisogno di spiegare perché. Con lo stesso ritmo sono calati i voti di protesta che avevano gonfiato nelle precedenti tornate Lega e M5S: evidentemente le contraddizioni e i marchiani errori tattici dei rispettivi gruppi dirigenti hanno spinto i simpatizzanti verso la destra pura e ideologizzata di FdI e, in misura maggiore, alla diserzione dalle urne. Il calo è più forte che in passato e solo in parte chiama in causa il carattere del voto amministrativo, oggi avvertito come poco influente in un generale trasferimento dei poteri verso lo stato centrale e i centri decisionali regionali.

In tempi di “pilota automatico” e di governo tecnico senza formula politica sembra un effetto collaterale inevitabile e non vale neppure la pena di considerarlo un sintomo di crisi della democrazia rappresentativa e avvento di post-democrazia. Forse è solo un indice di delusione e stanchezza, tipicamente italiano come lo stile smorto delle nostre serie TV.

Lasciando perdere le riflessioni epocali, che valgono ieri oggi e domani, quindi non servono quasi a nulla, e venendo ai risultati del voto valido – l’unico che nel breve periodo conti – l’impressione è che si tratti di un voto “centrista” ovvero draghiano, che premia un centro-sinistra subalterno al neoliberalismo riverniciato di green e keynesismo smart, punisce la destra sovranista cogliona di governo (Salvini) e premia (senza strafare) il grottesco ma coerente sovranismo di opposizione (Meloni).

Il Pd lettiano (che ovviamente non è quello di Marattin e di Calenda, pur se ne è condizionato) ha vinto alla grande con un esterno a Milano e con interni a Bologna (con un candidato insolitamente spostato a sinistra) e a Napoli, città dove già governava, mentre arranca verso il ballottaggio a Torino e a Roma, succedendo a due sindacature pentastellate. Bilancio di tutto rispetto, certo favorito dall’inaudita debolezza dei concorrenti di destra, dilaniati per di più dalle guerre intestine fra Lega e FdI. Letta e Casu hanno conquistato i due seggi suppletivi per la Camera, senza trionfare. Nei capoluoghi medi poco è cambiato e in Calabria ha rivinto la destra, con il volto moderato di Occhiuto (Forza Italia), favorita dalla spaccatura in tre della sinistra giallo-rossa.

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Grande perdente è Salvini, stretto fra la corrente governista di Giorgetti e dei governatori e la concorrenza a destra di Meloni, nonché direttamente lesionato dall’affare Morisi. La sua colpa immediata è aver strizzato un occhio al fanatismo no-vax e no-green pass, inviso alla Confindustria e quindi agli interessi della Lega padana, pragmatica e filo-draghiana; la colpa pregressa è di aver spostato, sia pure con effimero successo, la Lega dalle radici padane e autonomiste al nazionalismo sovranista e all’accordo con i più screditati gruppi meridionali.

La sua base non gli rimprovera il razzismo, la criminalizzazione dei migranti, l’omofobia e non difende il buon senso sanitario, ma lo considera ormai un peso morto, scollegato dai problemi concreti e addirittura uno che non fa gli interessi di medio periodo dei padroni e padroncini.

I leghisti che contano se lo terranno fin quando serve a portare voti e, se li fa perdere (come sta succedendo), sono pronti a scaricarlo. Giorgetti sa benissimo che, anche in caso di vittoria elettorale delle destre, né Salvini né Meloni potrebbero assumere la direzione del Governo per le diffidenze europee – e che quindi non porterebbero a casa il resto dei finanziamenti del Pnrr. Sa che serve l’avallo di Forza Italia (presumibilmente senza una partecipazione diretta del troppo anziano suo leader) e che lo stesso Giorgetti potrebbe essere una soluzione “moderata” potabile per la Ue. L’autunno del “Capitano” è cominciato.

Per le stesse ragioni è poco probabile che la coalizione dei tre partiti di destra possa ottenere a livello nazionale risultati (accordi di governo, non dico voti) superiori a quelli delle grandi città che hanno votato il 3-4 ottobre e dunque la corsa di Meloni, che meno ha risentito della crisi Covid e quasi nulla delle accuse di nazifascismo (ma chi l’avrebbe detto!) e finanziamenti in nero (come tutti gli altri partiti), rischia di essere inutile. Le destre sono probabile maggioranza nel corpo elettorale oggi, ma sia nel 2021 che nel 2023 Salvini e Meloni sono unfit a governare – per l’Europa e, di conseguenza, per la parte moderata della destra, aggrappata a Draghi.

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Il progetto di Letta – una volta risolto il garbuglio del Quirinale non ibernando Draghi su quel colle – è dunque quello di costruire una “maggioranza Ursula”, da Leu o quanto ne resterà alla diaspora M5S e a Forza Italia e alla Lega di governo. Il problema sta proprio in quest’ultimo spezzone, che dovrebbe giustificare una svolta ancora più moderata del Pd. Quanto rimarrà di FI con l’uscita di scena, anagraficamente prevedibile, di Berlusconi? Fino a qual punto la Lega si spaccherà o almeno riuscirà a emarginare Salvini? Renzi è in pieno declino ed è dubbio che, sua inaffidabilità a parte, possa funzionare da cerniera a destra. Diventa invece decisiva la figura in ascesa di Calenda (arrogante e ombroso quanto Renzi, ma più lucido).

Da questo punto di vista il ballottaggio romano diventa un momento chiave per portare a termine l’impresa di Letta. Primo, bisogna vedere quanto funziona Conte per portare almeno una parte dei voti pentastellati a Gualtieri, senza troppi danni da scissione e senza una convergenza Raggi-Di Battista; secondo, bisogna trattare sottobanco con Calenda, terzo arrivato nella competizione capitolina, ma primo per voti di lista. Calenda non vuole una contropartita romana ma nazionale e il Pd ha bisogno di uno spezzone moderato affine (possibilmente non renziano o aggiuntivo) per chiudere il cerchio della maggioranza Ursula e prima ancora per eleggere un Presidente della Repubblica che non sia Draghi trainato da Meloni. Se le due operazioni fallissero e Michetti dovesse farcela, tutto il patrimonio acquisito finora da Letta andrebbe in fumo e il futuro sarebbe compromesso.

Questa è la partita che si gioca in queste due settimane. Il resto conta poco – parliamo della scena politica, non della società italiana dove fratture e tendenze sono più complesse e imprevedibili e dover si muovo, per fortuna, anche altri attori di massa.

E, a proposito di Roma, cosa ha ottenuto la sinistra radicale? Probabilmente qualcosa a livello di municipi, ma poco al momento sul livello comunale e forse ancor meno sul piano della struttura sociale della città. I dati sono impietosi, accozzando insieme le tre liste di sostegno a Gualtieri e le formazioni indipendenti, che in parte potrebbero confluire sul sindaco in seconda battuta senza apparentamenti:

Sinistra civica ecologista 20.287 (2,01%)
Roma Futura 19.901 (1,98%)
Europa Verde 9.288 (0,92%)
Potere al popolo 6.043 (0,60%)
Rifondazione comunista 4.174 (0,41%)
Partito comunista 3.558 (0,35%)
Pci 3.085 (0,31%)
Pcl 475 (0,05%).

Chi non ha provato, una o due o tre volte nella vita a presentare liste alternative di movimento? Però a una certa ci abbiamo rinunciato, c’è un limite a sbattere la testa contro il muro. Per un giudizio sulla perseveranza ostinata e rissosa, non rimandiamo in conclusione a Lenin o a Gramsci, ma a un film iconico come Brian dNazareth dei Monty Python.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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