Facciamo un po’ di chiarezza: il fascismo mussoliniano del ventennio dittatoriale e totalitarista non può tornare ad essere la sostanza della politica italiana dell’oggi e nemmeno di domani; mentre forme di fascismo, che si declinano nella violenza prevaricatrice, xenofoba, razzista, omofoba e discriminante verso tutte le minoranze, sono un dato quotidiano, una evidenza che viene a galla ogni volta che nel Paese si registra un episodio (apparentemente isolato e scollegato dagli altri) di aggressività verbale, morale e fisica nei confronti di un avversario politico, di un migrante, di un omosessuale, e così via…

Il “fascismo storico” (e storicizzabile) è consegnato alla memoria e alla opportuna conoscenza, non solo scolastica, per diventare il cattivo esempio di un periodo fin troppo lungo che ha percorso l’Italia dal 1919 al 1945 sostituendosi al liberalismo giolittiano e al primato della monarchia di Casa Savoia. Quel fascismo, che è “IL” fascismo per antonomasia, è oggettivamente impensabile che possa diventare un “programma” attuabile per governare oggi, ed è pertanto inutile, persino controproducente, che lo si evochi come spauracchio nel presente in cui viviamo.

Si cade nel ridicolo se si pensa che l’estetica del fascismo di Mussolini possa ripresentarsi nelle stesse forme, con la medesima apparenza e con le identiche parole d’ordine d’un tempo. Se l’antifascismo deve fondarsi su contestazioni politiche che assumono come metro questa valutazione deviante e revisionistica (al contrario), tutta protesa verso la “minaccia” futura di un regime autoritario che trasformi l’Italia portandola indietro di cento anni, finisce per svilirsi e per diventare una operetta tragicomica e niente più.

L’antifascismo, invece, deve essere una pratica di vigilanza democratica e repubblicana che sappia individuare le tentazioni di scartamento dei diritti sociali e civili, delle fondamenta egualitarie costituzionali, del bilanciamento dei poteri dello Stato e di un lento e progressivo sovvertimento della Carta del 1948: così come è stato fatto dal 1946 in poi, quando contro la Repubblica vennero messi in atto tentativi di emarginazione dal contesto politico e sociale di parti rilevanti del Paese che sostenevano la via delle riforme progressiste, la centralità del lavoro, lo sviluppo della cultura libera e del libero giornalismo, della scienza e delle arti.

L’antifascismo moderno deve ispirarsi a quello che ha impedito i colpi di Stato anticomunisti e conservatori della rete di Gladio, di Junio Valerio Borghese, del generale De Lorenzo e di quanti hanno tramato nell’ombra intersecando servizi segreti deviati e logge massoniche altrettanto deviate, militari ambizioni e politici corrotti, mafia e Stato, criminalità organizzata e settori dell’eversione nera che non sono mai del tutto scomparsi.

L’antifascismo moderno deve saper distinguere: il folklorismo imbecille di coloro che si vestono da camicie nere e vanno a Predappio ad onorare la tomba del dittatore dai fascisti del terzo millennio che rimestano nel torbido, che fingono vicinanza al moderno proletariato, ai ceti sociali più disagiati per carpirne la benevolenza, il voto, il consenso anche di più lungo corso.

La simpatia che questi neofascisti intendono costruire (in certi casi restaurare, soprattutto nei quartieri più abbandonati e nelle periferie delle grandi città italiane) è sottilmente pericolosa, cerca di saldare disagio sociale e deriva autoritaria, individuando il momento opportuno per incanalare la rabbia popolare verso partiti sovranisti che fingono una condivisione di quella democrazia che negano nei loro atti tanto di governo quanto di opposizione.

Nessun aspetto del neofascismo va trascurato, ma bisogna stabilire una scala di incidenza pratica del nocumento che possono portare queste formazioni tanto alla politica quanto alla società italiana. Ciò non vuol dire sottovalutare, ad esempio, la galassia estremista di destra che strumentalizza il dissenso sul Green pass, prende la testa dei cortei ed egemonizza le manifestazioni in alcune parti del Paese. Così, pure, avere ben chiara la differenza tra neofascismo militante e neofascismo istituzionalista mascherato da “sovranismo” e da “destra moderna“, non vuol dire minimizzare ma, tutt’altro, significa avere ben presente chi abbiamo davanti e con chi abbiamo a che fare.

Una sorta di equilibrio tra storicizzazione del passato e riconoscibilità del medesimo nel presente. Obiettivamente, se Salvini e Meloni si dichiarassero antifascisti, il fatto non sarebbe solo meramente una pura formalità per accondiscendere alle richieste di chi pretende da questi due capipartito un atto di fedeltà alla democrazia e alla Repubblica nata dalla lotta resistenziale; no, il fatto avrebbe un grande valore politico e si riverserebbe a cascata dentro le loro formazioni che hanno al loro interno aree sensibili, permeate e permeabili dal nostalgismo del ventennio e alla voglia di una riproposizione in chiave moderna dell’autoritarismo in salsa nazionalista, ed aree invece più “pragmticamente” liberaleggianti, che intendono sfruttare il consenso di base della destra per fare politiche liberiste e ricostruire un centrodestra pericoloso per l’Italia tanto quanto quello originale berlusconiano che ha trasformato la società dal 1994 in poi.

Il berlusconismo. Per l’appunto. Il leghismo, anche. Ed il neofascismo missino che a Fiuggi ha tentato la “svolta“, ma che non ha mai messo del tutto fuori tema e fuori programma le peggiori pulsioni reazionarie e discriminatorie e ha tollerato una zona grigia, un ventre molle in cui hanno continuato ad alimentarsi gli istinti di una base ultras in tutto e per tutto. Alla rispettabilità istituzionale dei leader non ha mai corrisposto una piena e completa trasformazione dei referenti sociali di questi partiti: da Alleanza Nazionale a Fratelli d’Italia, il tema del fascismo torna e ritorna ciclicamente perché nel Paese non si è mai affrontata veramente la questione della esclusione dalla vita politica di chi, anche velatamente, faccia riferimento al fascismo come punto storico di partenza di una declinazione attuale del proprio agire politico.

Questo è il grande tema che va posto: una trasformazione culturale che oggi tenga conto della perdita di consenso che l’antifascismo ha avuto nel corso degli anni, da quando venne – proprio da sinistra – richiamato il tema della “pacificazione nazionale”, piuttosto che quello della stigmatizzazione senza se e senza ma di un regime, di un uomo e dei suoi lacchè che portarono l’Italia alla disumanizzazione, al razzismo legalizzato, alla guerra, alla distruzione morale e materiale.

Bisogna fare dell’antifascismo di oggi, moderno e contestuale alle grandi trasformazioni del nostro tempo (pandemia inclusa), un luogo di sviluppo della cultura costituzionale, dell’egualitarismo che è dentro la Carta del 1948 e che – con tutti i limiti positivi e propositivi del patto costituente tra forze politiche molto diverse fra loro, ma tutte antifasciste (per l’appunto!) – e quindi una sorta di inclusività escludente, un naturale terreno di crescita morale, civica e sociale che impedisca alle tentazioni autoritarie e discriminatorie di fare passi avanti. Avendo ben presente quanto sia subdola la capacità di infiltrazione del neofascismo in quei meandri della società dove la Stato fatica ad essere percepito, dove c’è lontananza, disprezzo e persino odio contro lo Repubblica.

Se fossimo in grado noi, antifascisti, comunisti ma non solo, di ricreare le condizioni per una rifondazione culturale di questa portata, per far sentire egemone il rigore democratico dentro un contesto di socialità diffusa, avremmo poco da temere anche da formazioni di estrema destra che non vogliono dichiararsi antifasciste.

Ma, per poter arrivare ad un punto di svolta di questo tipo, serve prima di tutto una trasformazione sociale, un recupero della fiducia tra cittadini e politica, tra popolo e istituzioni.

Non può esservi nessuna rinascita culturale democratica e antifascista, vera e concreta, senza una svolta politica che punti al miglioramento delle condizioni di sopravvivenza di milioni di italiani che sono preda della demagogia populista e sovranista proprio perché lasciati soli da quelle (presunte) sinistre di governo che non si battono per le rivendicazioni salariali, per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di retribuzione, per una nuova stagione del contrattualismo collettivo nazionale… ma che, invece, sostengono la precarietà, la divisione esasperata del lavoro e dei lavoratori in base alle esigenze del mercato, la subordinazione dei diritti sociali agli andamenti delle borse e dei dividendi degli azionisti.

Il liberismo impoverisce gran parte della popolazione. Il governo gestisce questa fase di transizione post-pandemica stando a guardia della stabilità dei mercati, tradendo ogni aspettativa del mondo del lavoro e, così, le destre possono autoalimentarsi intercettando tutto il malessere possibile e allontanandolo dalle giuste rivendicazioni di classe.

L’impotenza della sinistra di alternativa è eclatante, quasi endemica. Ma non può essere un alibi per abbassare la vigilanza democratica e repubblicana contro qualunque tentativo di imbellettamento di un autoritarismo strisciante che prova a farsi largo dove trova spazio, sostegno e collaborazione in particolare da chi pensa – commettendo l’errore d’inizio secolo… – di sfruttarne il ruolo per gestire altre posizioni di potere.

Il nodo gordiano si scioglie solo tagliandolo: per questo il revisionismo storico, quello politico e l’inclusione dei sovranisti nella politica istituzionale è un prezzo alto che il liberismo fa pagare alla democrazia. Un ennesimo prezzo. Non il primo e, c’è da giurarci, nemmeno l’ultimo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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