La stessa politica coloniale italiana è sorta come surrogato alla mancanza di coraggio della classe dirigente che, incapace di risolvere la questione meridionale mediante una riforma agraria, prospettava al contadino affamato di terra il miraggio di terre coloniali da sfruttare.
Antonio Gramsci si interessa alle peculiari forme di resistenza di alcuni popoli colonizzati e in particolare alla tattica di disobbedienza civile sostenuta da Gandhi, che Gramsci avvicina al modo di rapportarsi del cristianesimo primitivo con l’Impero romano, propria di “paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (…) sebbene come numero di abitanti trascurabili” [1]. In tale caso, pur venendo meno l’egemonia, poiché i conquistatori si sono macchiati di atti barbari, la superiorità economica e tecnologica gli consente di mantenere il predominio al quale la popolazione subalterna contrappone la “esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, alla cooperazione, che però di fatto è una resistenza diluita e penosa” (ibidem).
Ma la parte più interessante delle notazioni di Gramsci sull’imperialismo è quella in cui ne specifica il concetto in una complessa dialettica tra struttura e sovrastrutture, nell’analisi di una questione decisiva dei Quaderni del carcere: gli intellettuali italiani. In tale analisi estremamente raffinata delle sovrastrutture Gramsci amplia il concetto tradizionale di imperialismo. Egli osserva come in Italia, accanto al tradizionale cosmopolitismo degli intellettuali, che ha per secoli ostacolato l’unificazione nazionale, è “esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale” (2, 25: 181).
Il vagheggiamento di un dominio culturale italiano – basato su un presunto primato morale e civile fondato sull’essere stata l’Italia il centro di irradiazione della cultura latina, umanistica e rinascimentale – dimentica la “«funzione cosmopolita degli intellettuali italiani» che è ben altra cosa che non «dominio culturale» di carattere nazionale: è invece proprio testimonianza di assenza del carattere nazionale della cultura” (5, 123: 651). Anche dinanzi all’evidente declino culturale dell’Italia a partire dalla Controriforma, lo sciovinismo culturale è arrivato a esaltare “con spirito imperialistico” la presunta funzione egemonica della civiltà italiana in quanto sede del papato, facendone il “surrogato dello spirito di nazionalità e statale” (17, 8: 1912), necessariamente assente in un paese soggiogato da potenze straniere.
La stessa politica coloniale italiana, priva di motivazioni di ordine economico, è sorta con il governo Crispi come surrogato alla mancanza di coraggio della classe dirigente che, incapace di risolvere la questione meridionale mediante una radicale riforma agraria, prospetta al contadino affamato di terra “il miraggio delle terre coloniali da sfruttare” (19, 24: 2018) [2]. A parere di Gramsci si trattava di un “imperialismo-castello in aria” (1, 44: 45), cioè di “un imperialismo passionale, oratorio” (19, 24: 2018), in quanto l’arretrato capitalismo italiano non conosceva ancora la crisi di sovrapproduzione dovuta alla progressiva flessione del tasso di profitto, che aveva indotto i paesi capitalisti sviluppati ad “ampliare l’area di espansione” dei propri investimenti redditizi, dando vita dopo il 1890 ai “grandi imperi coloniali” (ibidem). Al contrario l’Italia non solo non disponeva dei capitali da investire all’estero, ma era costretta a ricorrere a investimenti stranieri per poter sviluppare il proprio sistema produttivo. Cosicché l’espansione coloniale italiana doveva ricorrere alla “passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della terra facile” (ivi: 2019). Dunque l’imperialismo italiano, irrazionale dal punto di vista strutturale, aveva le sue cause nella sola sovrastruttura, ovvero nella “ideologia meridionale creata dalla fame di terra e dall’emigrazione verso la colonizzazione imperialista” (1, 44: 46). Così suona il testo A, nel testo C, più appropriatamente – forse Gramsci aveva avuto modo di approfondire i propri studi in proposito – quello italiano non è più definito un “colonialismo imperialista”, ma un “colonialismo di popolamento” (19, 24: 2020). Per quanto riguarda il meridionalismo filoimperialista, “bisogna tener presente l’importanza che aveva il «Mattino» nel Mezzogiorno (era intanto il giornale più diffuso); il «Mattino» fu sempre crispino espansionista, dando il tono all’ideologia meridionale, creata dalla fame di terra e dalle sofferenze dell’emigrazione” (ibidem).
Lo stesso sciovinismo italiano del primo Novecento era privo di basi economiche, “si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti” (2, 25, 181-82), ed era di ostacolo al compimento dell’unità del Paese, in quanto i suoi esponenti sostenevano l’alleanza con gli imperi centrali. Le sue ragioni erano unicamente di carattere ideologico e miravano a “sopprimere la francofilia democratica” (ibidem). Ciò consente di capire il motivo per cui a propagandare la concezione “nazionalista-imperialista” (6, 129: 797) fra le masse erano principalmente letterati quali Pascoli o D’Annunzio [3]. Come osserva Gramsci: “lo sciovinismo italiano è caratteristico e ha dei tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia popolaresca anch’essa caratteristica. Il primo nazionalismo comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese. Subirono l’irredentismo perché non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un’arma dell’influenza francese in Italia. Teoricamente la politica estera dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza tedesca” (2, 25: 181-82).
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 748. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] Per dirla con Gramsci: “anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare” (19, 24: 2018).
[3] Per quanto riguarda il ruolo di influenti intellettuali italiani a sostegno della politica imperialista, osserva Gramsci: “si potrebbe studiare la politica di D’Annunzio come uno dei tanti ripetuti tentativi di letterati (Pascoli, ma forse bisogna risalire a Garibaldi) per promuovere un nazionalsocialismo in Italia (cioè per condurre le grandi masse all’«idea» nazionale o nazionalista-imperialista)” (6, 129: 797).
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