di Marco Sferini
Il balbettio istituzionale sul Green pass fa il paio con l’abborracciata risposta che il ministro Lamorgese ha dato alla Camera dei Deputati all’interrogazione di Giorgia Meloni sulla gestione dell’ordine pubblico nella capitale durante la manifestazione sfociata negli assalti alla CGIL ed a Palazzo Chigi. Se c’è un modo per offrire benzina alle destre da gettare sul fuoco delle proteste che rimestano nel torbido della confusione mediatica, sociale, culturale e persino mentale di tanta gente, risposte come quella della Ministro dell’Interno ne facilitano lo sversamento sul selciato dei pessimi maestri del sovranismo a buon mercato.
Se è ragionevole pensare, ed anche affermare in Parlamento, che l’arresto di un leader neofascista lì nella pubblica piazza, davanti a migliaia di persone cui era stata sapientemente esacerbata la già cresciuta animosità verso le istituzioni e verso tutti i simboli del cosiddetto “potere“, avrebbe comportato probabilmente una reazione uguale e contraria, violenta e imprevedibile sotto tanti punti di vista, è altrettanto ragionevole continuare a domandarsi come mai la sede della CGIL non sia stata adeguatamente protetta.
Lo stesso vale per la sede del Governo della Repubblica: la povera immagine del blindato solitario messo a guardia del portone di ingresso di Palazzo Chigi è la raffigurazione plastica di una disorganizzazione palese nella tutela e nel mantenimento dell’ordine pubblico.
Giorgia Meloni, assediata insieme al suo partito dalle inchieste giornalistiche, dalla pressione contro l’epifenomeno fascista che si porta appresso storicamente parlando (quanto meno), risponde alla pari di Salvini: chiama in causa concetti e fa paragoni che niente hanno a che vedere con il presente e con le questioni sollevate dal comportamento eversivo delle destre criminali che hanno cavalcato le proteste sulle mascherine prima e sul Green pass poi.
Era evidente che Lega e Fratelli d’Italia non avrebbero potuto condividere la mozione del PD per chiedere al governo lo scioglimento immediato delle organizzazioni neofasciste. Prima che di una presa di distanza sul piano ideologico, per le destre sovraniste si tratta di mantenere il punto su un armamentario politico, istituzionale ed anche elettorale che ha nella mancata soluzione di continuità con il neofascismo post-bellico una collocazione naturale, quasi primordiale. E’ un cordone ombelicale che non si vuole tagliare perché, per farlo, andrebbero rifondati a tutto tondo i due partiti, andando ben oltre la semplice riverniciatura nazionalista dell’uno e italo-conservatrice dell’altro.
La difficoltà a dirsi antifascisti sta tutta nella profondità di una intrinseca identità che i sovranisti, con accenti e sfumature differenti, hanno ereditato fin dalla ricomposizione del quadro politico internazionale e nazionale a far data dal 1989.
Allora non fu soltanto sconquassato il perimetro ideologico dei partiti tradizionali, ma furono poste le premesse per il venir meno dell’egemonia culturale della Costituzione e dei suoi valori nella società diffusa, creando i presupposti per una sorta di “pacificazione nazionale” che spaziasse dalla valutazione storica della storia del Paese a quella più stretta attualità che era tutta in movimento e che mutava così velocemente da far impallidire qualunque riferimento al “vincolo di mandato” parlamentare e, in particolar modo, alla coerenza manifesta tanto dei politici di professione quanto di quelli che lo sarebbero presto diventati.
La pandemia ha riaperto tante ferite nel tessuto sociale ed anche nel mondo del mondo politico, sia di palazzo sia di piazza, e ha messo proprio le istituzioni davanti alla gestione di una serie di contraddizioni che non si sono limitate ai regolamenti e alla burocrazia, peraltro già grandemente deficitaria in tutto il Paese.
La pandemia ha ridisegnato i confini di classe su un periodo più lungo di quello delle singole ondate del Covid-19, assimilando gli effetti di questi dissesti e sommandoli: dalla crisi della sanità pubblica a quella del rapporto tra i poteri dello Stato, tra il governo e il Parlamento, tra questi e una popolazione divisa sempre di più verticalmente su questioni che lambiscono la socialità, la vita economica di ognuno, ma che non determinano una polarizzazione delle parti.
Se non si esclude, però, il montare in queste ore di una protesta del mondo del lavoro contro il Green pass rivolta alla contestazione proprio del legame tra il certificato verde e la possibilità di accedere alle fabbriche, ai cantieri e ai porti: l’esempio di Trieste rimane, al momento, abbastanza emblematico.
Sarà un fine settimana bollente sul terreno dello scontro tra lavoratori e cittadini da un lato, governo dall’altro. Rimane fuori tutto il mondo dell’impresa, il vero fronte opposto di classe che non si vede e che viene oscurato dalla protesta esclusivistica e fuorviante sul certificato verde e sulle tante ramificazioni di fantasie di complotto che agitano i programmi televisivi, offuscano le vere ragioni tanto dell’assalto alla CGIL quanto della torsione eversiva che ne è protagonista e che rischia di essere troppo sottaciuta dall’azione contenitiva dell’esecutivo.
Non deve esservi timidezza istituzionale alcuna nella repressione della violenza organizzata contro le organizzazioni in difesa dei lavoratori: nel nome di ipocriti e falsi riferimenti alla “libertà” si sta consumando un logoramento della struttura sociale del Paese tra accelerazioni governative sui piani di ripartizione economica dei finanziamenti del PNRR protesi verso le imprese, trascurando il resto.
L’Italia, tra il verdetto delle urne e le manifestazioni di piazza, tra la violenza fascista e l’incertezza governativa sull’applicazione pasticciata del Green pass, conosce oggi una fase così incerta da non lasciar presagire nulla di buono.
MARCO SFERINI