La flessibilizzazione favorisce anche le imprese con un numero basso di precari, in quanto la condizione precaria è una condizione di ricatto che colpisce l’intera forza lavoro. In effetti, l’aumento di forme di lavoro non garantite spinge i lavoratori regolari a ridurre al minimo le proprie pretese in termini salariali e gli stessi diritti acquisiti, sempre più presentati come privilegi dai mass media.

 di Renato Caputo  

Sia il lavoro interinale che la somministrazione di lavoro hanno consentito ai capitalisti di stipulare un contratto di fornitura di manodopera con agenzie specializzate, in grado di fornire in tempo reale, e solo per il periodo necessario, le professionalità richieste. Il lavoratore dipende giuridicamente dalle aziende fornitrici, e da queste viene retribuito, ma funzionalmente presta il suo lavoro presso altre aziende che hanno bisogno di professionalità per periodi di tempo limitato. Mentre però il lavoro interinale poteva essere solo a tempo determinato, nel caso di somministrazione di lavoro l’assunzione dell’impresa fornitrice poteva, sino al 2007, essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Nel secondo caso definito “staff-leasing” – formula che richiama la modalità di finanziamento usualmente utilizzata dalle imprese per l’acquisto dei beni strumentali necessari all’attività aziendale – in genere meno frequente, il prestatore di lavoro per i periodi nei quali non viene utilizzato resta a disposizione dell’impresa fornitrice e ha diritto a percepire un’indennità mensile di disponibilità. La locuzione “interinale” deriva dal latino interim, ovvero, provvisorio. Abbinata al termine “lavoro” rappresenta una forma di rapporto di lavoro che ha durata temporanea. Questa terminologia è comparsa in Italia agli inizi degli anni 1990, periodo in cui comincia a farsi sentire il bisogno di flessibilità nei rapporti di lavoro. L’introduzione di questa tipologia di contratto lavorativo si deve alla Legge Treu del 1997 (legge 24 giugno 1997, n.196). Essendo un contratto di fornitura di lavoro temporaneo, quando rinnovato più di una volta ha potuto fornire alle imprese un valido pretesto per mascherare una posizione lavorativa subordinata e legata a un fabbisogno non di carattere temporaneo ma stabile, creando altre situazioni di precarietà. Successivamente ha subito varie modifiche e nel 2003, con la legge n. 30/2003 e il decreto legislativo che ne è derivato, (il D. Lgs. 24 ottobre 2003, n. 276, la cosiddetta Legge Biagi), il lavoro interinale è stato abolito per permettere l’ingresso della somministrazione di lavoro sia a tempo determinato che indeterminato, quest’ultimo abrogato dalla legge n. 247/2007. 

L’aumento di forme di lavoro non garantite spinge i lavoratori regolari a ridurre al minimo le proprie pretese in termini salariali e gli stessi diritti acquisiti, sempre più presentati come privilegi dai mass media. La diminuzione dei salari, porta i garantiti ad aumentare ritmi e tempi di lavoro per mantenere il precedente tenore di vita. Ciò produce nuova disoccupazione, sviluppando nuove forme di lavoro flessibili con orario e salario ridotti, per prevenire possibili disordini sociali causati dalla disoccupazione di massa. In siffatte condizioni, una riduzione puramente contrattuale dell’orario di lavoro rischierebbe di non fare altro che spostare il lavoro, e il suo tempo, dalla struttura centrale della produzione verso quella cosiddetta “atipica” che sfugge a ogni tutela contrattuale. Quindi, se si vuol parlare seriamente del tempo di lavoro e della sua riduzione, diventa imprescindibile collegare quello dissoltosi nel cottimo e nel lavoro formalmente autonomo alla contrattazione generale per la riduzione della giornata lavorativa. 

Il fatto che, talvolta, nei paesi a capitalismo avanzato, i salari di alcuni lavoratori permettano l’acquisto di merci che vanno oltre la semplice riproduzione della forza lavoro, è il fumo che ha velato gli occhi della mente degli appartenenti alle classi subalterne. Bisognerebbe infatti tener conto della media dei salari dell’intera classe proletaria per avere un’adeguata visione d’insieme del rapporto di sfruttamento capitalistico.

In una fase di crisi, le aziende per mantenersi competitive mirano a introdurre sempre nuove macchine, aumentando la disoccupazione, il capitale mira a produrre più merci estorcendo più pluslavoro da meno lavoratori. Quindi, non appena i lavoratori penetrano il mistero e si rendono conto di come possa avvenire che, nella stessa misura in cui lavorano di più, producono una maggiore ricchezza altrui e cresce la forza produttiva del loro lavoro, perfino la loro funzione come mezzo di valorizzazione del capitale diventa sempre più precaria per essi; non appena scoprono che il grado d’intensità della concorrenza tra loro stessi dipende in tutto dalla pressione della sovrappopolazione relativa; non appena quindi cercano mediante sindacati ecc., di organizzare una cooperazione sistematica fra i lavoratori occupati e quelli disoccupati per spezzare o affievolire le rovinose conseguenze che quella “legge naturale della produzione capitalistica” ha per la loro classe, il capitale e il suo sicofante, l’economista, strepitano su una violazione della “eterna” e per così dire “sacra” legge della domanda e dell’offerta.

Per altro è sempre meno scontato che un periodo di lavoro precario sia la premessa a forme contrattuali stabili e comunque la stabilizzazione è sempre più posticipata [1]. Il lavoratore precario che detiene una partita Iva o è comunque riconosciuto come libero professionista, secondo varie tipologie contrattuali, solo raramente è adeguatamente remunerato. Spesso il lavoratore precario che ha una partita Iva si è visto costretto ad aprirla per permettere all’impresa che lo fa lavorare di non dover avere con lui alcun tipo di rapporto dal punto di vista previdenziale. La gran parte delle partite Iva aperte da precari, in questo modo, rispondono solo a una precisa volontà di evasione contributiva da parte della controparte padronale. Il fatto di detenere una partita Iva, da un punto di vista economico, infatti, non costituisce alcuna garanzia di solvibilità, come si incaricano di dimostrare le banche quando un precario si rivolge loro. Tanto più che sovente le aziende preferiscono assumere lavoratori precari a partita Iva con contratti a progetto e rinnovarli, mascherando una posizione lavorativa subordinata [2], senza doversene assumere gli oneri. Soprattutto oggi, perciò, il riferimento ai criteri correnti – allorché si prenda in considerazione il lato formale di qualsiasi lavoro, e di quello “autonomo” in particolare – è fuorviante. Nella maggior parte dei nuovi lavori che non appaiono come dipendenti, quella forma non è altro che la veste necessaria sia, innanzitutto, per ridurne costi e oneri (contrattuali, indiretti e sociali), sia, anche, per occultare la crescita di comando del capitale in una parvenza di autodeterminazione

Inoltre diminuisce il numero di precari che ogni anno viene stabilizzato e aumenta in media il numero di anni di precariato. Tanto più che tra i precari non sono presenti solo giovani alle prime esperienze lavorative, ma vi è anche una non trascurabile presenza di over-40. Se nel settore industriale, soprattutto nelle mansioni specializzate, i lavoratori atipici che superano il periodo di prova sono generalmente assunti in pianta stabile, “nei servizi ad alta intensità di lavoro” – dai call center alle imprese di pulizia, ma anche nella pubblica amministrazione dove vige da anni il blocco del turnover – accade esattamente l’opposto. Il passaggio a forme di occupazioni più stabili, dipende dal tipo di lavoro, dalla lunghezza del periodo di formazione, dalle competenze complesse che un lavoratore acquisisce nel periodo di apprendistato forzoso. Cambiare personale ogni sei mese o ogni anno, in certe funzioni, è economicamente controproducente.

D’altra parte, anche un’impresa industriale altamente specializzata, e quindi con pochi precari, apprezza la flessibilizzazione della forza lavoro per la sua funzione politica: la condizione precaria è una condizione di ricatto che colpisce non solo i diretti interessati, ma tutta la forza lavoro, immobilizzandola e rendendola dipendente in tutto e per tutto dal successo del suo padrone. Il processo di produzione così riorganizzato si avvale completamente dei vantaggi di maggiore efficienza arrecati dal lavoro di gruppo. Si tratta appunto di ciò che Marx indicava come appropriazione gratuita dei risultati del lavoro combinato, collettivo, da parte del capitale. Nelle condizioni già raggiunte dall’esperienza giapponese si è riusciti ad attuare questa determinazione economica al massimo grado, grazie alla flessibilità del processo – dovuta innanzitutto alla flessibilità della forza-lavoro, che ha reso possibile al capitale di avvalersi della flessibilità delle macchine, nella figura di multifunzionalità di lavoro e macchine.

Del resto, al di là della frammentazione contrattuale, tratto comune a tutte queste nuove forme di occupazione è il salario pagato a rendimento, a “obiettivi-risultato”, a “pezzo” – quali forme attuali del cottimo – come partecipazione all’andamento dell’impresa o legato ai premi di produzione, anziché a tempo. Dilegua inoltre in tutti i lavori “a rendimento”, con gli “obiettivi-risultato”, col volontariato (qui la gratuità è premessa e modello “morale” a futuri benefici, speranza di lavoro non garantita), col lavoro a domicilio doppiamente “nero”, a “pezzo”, con la creazione di indotti o filiere concatenate ecc. Coartando il lavoratore all’autocontrollo dello sfruttamento, nella figura classica di cottimo – da intendersi meglio come “cottimo collettivo”, che è cottimo corporativo – si possono oggi racchiudere come epitome tutte o quasi le nuove forme contrattuali del rapporto di lavoro, emarginate, precarie, irregolari, che Marx definirebbe la forma stagnante dell’esercito industriale di riserva. Si tratta di ciò che è costruito intorno alle ricordate parodie di flessibilità del lavoro e del salario, interinalità e parzialità del tempo di lavoro, consensualità imbellettata come partecipazione – che è in realtà ricatto consensuale. Questa accettazione del ricatto capitalistico, infatti, subordina corporativamente il salario al risultato dell’impresa e il reddito (come cittadino) allo stato dell’economia “nazionale”. La flessibilità del salario misurata come cottimo tradizionale non è più neppure rintracciabile direttamente nel “rendimento” del lavoro stesso.

Dunque, alla doppia flessibilità di lavoro e macchine si accompagna allora, necessariamente per il funzionamento del capitale, la flessibilità del salario: e anche qui per flessibilità si deve identicamente intendere precarietà, incertezza, irregolarità, riduzione, ecc. A questo fine, la forma storica massimamente adeguata al concetto di capitale – lo diceva già Marx e non è perciò una novità, se non nel suo compimento – è il cottimo, in qualsiasi forma esso sia mascherato. Ossia, detto in altri termini, è il pagamento del rendimento del lavoro e non del lavoro stesso o, meglio, dell’uso della forza-lavoro.

Note:

[1] L’incertezza legata al contratto a progetto, spesso utilizzati per dare vita a forme di precariato, ha consentito allo sfruttatore della forza-lavoro – il quale poteva rinnovare per diversi anni la stessa collaborazione e poi aggirare il problema del licenziamento essendo il contratto a termine – mettere in atto un evidente risparmio contributivo e salariale. Infatti era sufficiente attendere la scadenza del contratto (necessariamente ravvicinata nel tempo, di solito entro l’anno solare) e limitarsi a non assumere il lavoratore l’anno successivo. Lo sfruttatore della forza-lavoro non era infatti tenuto a motivare una mancata assunzione in quanto il contratto non costituisce un periodo di prova, ma un lavoro a termine. Tornando alla questione contributiva, i versamenti dei precari sempre decisamente in attivo, sono stati da sempre spietatamente impiegati per colmare il disavanzo dell’Inps e non per pagare le pensioni dei precari. Per altro, a titolo esemplificativo la contribuzione Inps a carico di artigiani e commercianti è inferiore rispetto a quella richiesta ai precari: 19,5% e 20% contro il 23,5% dei precari.

[2] Si definisce prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/i-presunti-lavori-atipici

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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