A due anni dallo scoppio di quella che sembrava una vera e propria rivoluzione, le persone in Libano si sono riunite in corteo per commemorare le giornate di protesta. Poca partecipazione, ma la rabbia sembra intatta

Lo scroscio delle prime piogge stagionali accoglie i piccoli gruppi di manifestanti che si sono dati appuntamento in diversi luoghi della città di Beirut alle tre di pomeriggio per celebrare il secondo anniversario dell’inizio delle proteste in Libano. Un po’ alla volta le persone radunate nei vari concentramenti si dirigono verso Piazza dei Martiri, scortate dalla musica degli amplificatori e dai cori scanditi dai megafoni per chiedere giustizia per le vittime dell’esplosione del porto. Se paragonati all’imponente mobilitazione di due anni fa i numeri della giornata di domenica sono impietosi e, quando i vari gruppi si radunano ai piedi del pugno chiuso che rappresenta il simbolo della thawra, l’atmosfera non è certamente di festa.

Gli ultimi due anni sono stati catastrofici per il Libano e alla crisi economica che aveva spinto centinaia di migliaia di persone a mobilitarsi e a riempire le strade di tutto il paese si sono sommati, nell’ordine, lo scoppio della pandemia di Covid-19, il collasso della lira libanese, l’esplosione del porto di Beirut e il completo deterioramento delle rete elettrica. Le violenze della scorsa settimana, poi, minacciano di riportare in vita i demoni che il paese dei Cedri non è mai veramente riuscito a rimuovere.

La risposta dei libanesi per il secondo anniversario di quella che per molti era stata vissuta come una vera e propria rivoluzione non poteva in alcun modo essere massiccia, e l’entusiasmo e la voglia di cambiamento del 2019 hanno lasciato il passo, per molti, alla rassegnazione e alla convinzione che l’unico modo per salvarsi sia lasciare il paese.

La fierezza e l’orgoglio della centinaia di persone che si radunano in Piazza dei Martiri sono però intatti, e il pomeriggio scorre in fretta sia per chi ha scelto di esibire cartelli di accusa verso il “regime criminale” che tiene in ostaggio il paese sia per chi, invece, grida la propria rabbia ai microfoni delle numerose televisioni e testate locali presenti alla giornata. L’anniversario del 17 ottobre è un’occasione da non perdere per chi ancora crede nel cambiamento.

A distanza di due anni, i presidi permanenti, le assemblee e la voglia di riappropriarsi degli spazi cittadini si sono tramutati nella parcellizzazione dei cittadini libanesi e nella lotta quotidiana di chi ormai ha come obiettivo la sopravvivenza. Sono molte le associazioni nate come forma di auto-organizzazione, ma l’impressione è che l’assistenzialismo e il mutuo soccorso non siano più in grado di imporsi come propulsori di una spinta al cambiamento.

La giornata di domenica ha rappresentato anche la volontà di ridare vita ai meccanismi di condivisione quotidiana e di cospirazione che avevano segnato le prime fase della sollevazione. Rabbia, disgusto e voglia di non chinare la testa che si concentrano in uno spazio di poche ore e che, dopo il raduno in Piazza dei Martiri, confluiscono in un corteo di auto e persone che sfila verso i luoghi delle esplosioni del 4 agosto 2020.

Il culmine della giornata si raggiunge alle 18:07, orario che indica simbolicamente il momento delle esplosioni, quando viene illuminato con delle fiamme il monumento che rappresenta la sollevazione del 17 ottobre eretto di fronte alle macerie del porto. La fiamma della rivolta non è ancora spenta, e i manifestanti scandiscono con rabbia e determinazione i canti che hanno segnato le proteste del Libano e, prima ancora, delle Primavere arabe. Tra tutti, è Kellon yani Kellon, “Tutti significa tutti”, il coro che ha segnato e caratterizzato il movimento di protesta. Uno slogan che a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo per il parlamento (che si dovrebbero tenere a marzo 2022) assume una particolare valenza.

Nata come protesta di “pancia” che aveva avuto come miccia l’imposizione di una tassa sulle chiamate di WhatsApp, la sollevazione libanese si era presto caricata di contenuti colmi di significato che andavano dalla fine del confessionalismo alla maggiore partecipazione politica. Il rifiuto dell’intera classe politica non si è tradotto in un reale cambiamento e tra chi ha scelto di non partecipare alla manifestazione di domenica c’è anche chi rivede nei gruppi politici emersi dalla thawra la riproduzione delle stesse dinamiche tossiche che animano i partiti politici che governano il paese da decenni.

Le elezioni saranno un banco di prova per testare l’effettiva possibilità di un cambiamento che passi per il voto dei cittadini e che abbia i libanesi come protagonisti. Gli scontri a fuoco di giovedì hanno gettato un’ombra inquietante sulla condizione di un paese che è in ginocchio da oltre un anno e che non è stato in grado di ottenere giustizia per le proprie vittime.

La paura di un nuovo conflitto civile è senza dubbio uno dei motivi della bassa partecipazione alla manifestazione. A questa si sommano la disillusione dei cittadini e l’aumento dei costi dei trasporti, che frena la volontà di molti di attivarsi in prima persona e prendere parte a un movimento che nel medio periodo non ha raggiunto i risultati sperati.

Al tramonto l’oscurità torna a prendere possesso delle strade di Beirut e, insieme al buio, il silenzio torna a essere la presenza più ingombrante nell’area del porto. Le voci di chi ancora una volta è sceso in piazza per chiedere un Libano migliore sfumano insieme alle luci che un tempo illuminavano Piazza dei Martiri e, tra chi guarda alla diaspora libanese come attore in grado di innescare un cambiamento e chi, invece, vede nella partenza dei propri cari verso l’estero un motivo in più per alzare la voce, la certezza è che i libanesi non sono disposti a sottomettersi all’oblio e alla corruzione.

La notte cala e senza elettricità l’atmosfera si fa lugubre ma, nonostante tutto, a Beirut e in tutto il paese la fiamma della rivolta aspetta solamente di essere alimentata.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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