Condivido completamente l’obiettivo illustrato nelle relazioni di costruire una convergenza tra i movimenti e più in generale di tutte le istanze sociali, culturali e politiche che si muovono sul terreno dell’alternativa.

Condivido altresì che il centro della nostra riflessione oggi debba riguardare come si fa a determinare questa convergenza visto che con ogni evidenza questa è da costruire.

Penso che occorra innanzitutto valorizzare la manifestazione di ieri. Non solo abbiamo fatto bene a farla, ma nella manifestazione vi erano generazioni diverse – molto presenti i giovani – e venivano poste istanze diversificate: da quella ambientale alla lotta operaia, dal tema del reddito a quella dell’occupazione e così via. La manifestazione ci parla di una unità possibile perché le diverse istanze che vi sono confluite non sono rimaste separate e ci dice che l’intersezionalità, il dialogo senza gerarchie tra diverse soggettività, è la strada giusta per costruire una convergenza forte.

In secondo luogo per costruire la convergenza penso sia necessario come diceva il compagno dei Cobas, applicare il metodo del consenso. Per costruire la convergenza non bastano i contenuti, occorre essere rispettosi degli altri e riprodurre quanto fummo capaci di costruire a Genova 20 anni fa. Occorre sconfiggere il settarismo e l’autoreferenzialità che oggi la fanno da padrona. Quindi intersezionalità e metodo del consenso come punti fondativi la possibilità della convergenza.

A partire da questa impostazione di fondo occorre individuare bene i punti di azione politica. Occorre entrare in relazione con il senso comune di massa per aprire una lotta non minoritaria, che sia in grado di porre il tema dell’alternativa a livello popolare. Due mi paiono gli elementi generali su cui lavorare.

In primo luogo dobbiamo dare una risposta collettiva alla paura che attanaglia la società in seguito al COVID. In una situazione pesantemente atomizzata, in cui ognuno si sentiva solo, l’esperienza del COVID ha dilatato a dismisura la paura. Siamo vissuti per un anno e mezzo con la paura di morire. E’ un’esperienza inedita per le popolazioni occidentali nel secondo dopoguerra. Questa paura di morire è a tutti gli effetti una esperienza “di guerra” – come essere al fronte – e produce una enorme angoscia esistenziale che ogni persona ha affrontato individualmente, senza superarla. La gente sta male e non sa come uscirne. Non a caso la fanno da padrona la ricerca di soluzioni magiche e miracolistiche che coinvolgono larga parte delle persone a prescindere dalla posizione che hanno nella disputa – gonfiata dal governo – tra vax e no vax. Da un lato chi nega l’esistenza del COVID, dall’altro chi confida negli effetti miracolosi del vaccino, il tutto mischiato con la ricerca di untori, capri espiatori e complotti che coinvolgono moltissime persone. La ricerca di soluzioni consolatorie alla propria paura individuale caratterizza il senso comune oggi in Italia. Il tutto produce barbarie a accresce ulteriormente la paura.
Viceversa, la paura deve essere elaborata collettivamente e una risposta politica e collettiva alla paura non può essere fondata che sulla rimozione delle cause che hanno prodotto il COVID: occorre una radicale riconversione ambientale delle produzioni e dell’economia. Il COVID come il cambio ambientale ci pongono quindi il problema dell’urgenza del cambio del modello di sviluppo, non della ripresa del vecchio modello di sviluppo a cui si somma i vaccini brevettati per i soli popoli ricchi. Una risposa politica alla paura significa porre il tema dell’urgenza nel cambio del modello di sviluppo sul piano ambientale come su quello sociale. Giustamente Dario Salvetti sottolineava che i lavoratori GKN non hanno tempo, così come non hanno tempo i giovani perché il cambio climatico incombe, come non possiamo permettere che un capitalismo distruttivo dia vita a qualche altro virus peggiore del COVID.
Uscire collettivamente dalla paura significa porre con radicalità il tema del cambiamento, riaprire con radicalità la lotta di classe, contro il sistema. Se non abbiamo tempo vuol dire che le mezze misure non sono efficaci, non servono a nulla . Se non abbiamo tempo bisogna intervenire subito, qui ed ora. Mi si scusi la metafora ma l’urgenza chiede di agire come di fronte ad una guerra, o se volete di fare una rivoluzione. Il tempo è ora.

In secondo luogo occorre dire forte e chiaro che i soldi per cambiare ci sono. Per decenni ci hanno raccontato che bisognava tirare la cinghia, fare i sacrifici e adesso, quando rischiavano di fallire banche e grandi imprese, guarda caso i soldi sono saltati fuori. Centinaia di miliardi, una parte che non dovrà nemmeno essere restituita. E mentre questi soldi vengono spartiti tra le imprese lesinano i soldi per la scuola pubblica, la sanità pubblica, l’assistenza e così via.

Occorre costruire una grande narrazione sul fatto che i soldi ci sono, che la scarsità è stata prodotta artificialmente per costruire la guerra tra i poveri e per questa via disciplinare il popolo. L’umanità – e l’Italia – non è mai stata così ricca, si tratta di usare questa ricchezza a scopi sociali invece che per continuare ad arricchire i più ricchi o a preparare la guerra.

La nostra convergenza deve quindi avere due idee di fondo: per uscire dalla paura bisogna cambiare tutto qui ed ora e i soldi per cambiare ci sono, come dimostra la politica di tutte le banche centrali del mondo.

Questo nostro impianto di fondo mi pare possa articolarsi concretamente in tre direzioni.

In primo luogo la giusta proposta avanzata in relazione di costruire nei prossimi mesi un Forum di convergenza dei movimenti e delle lotte deve concretamente partire dai territori, dalle comunità. La nostra forza sono i territori, le esperienze concrete di conflitto sociale e di tessitura sociale. Lo dimostrano la GKN come la Val di Susa. Dobbiamo costruire comunità, non lasciare solo nessuno e a partire da questa costruzione comunitaria costruire Forum in tutti i territori e arrivare a costruire il Forum nazionale. La classe dirigente da contrapporre a questi manigoldi che ci stanno governando deve essere costruita ed evidenziata a partire dai saperi sociali cresciuti nelle esperienze di conflitto e di costruzione comunitaria sui territori.

In secondo luogo dobbiamo puntare a costruire da subito lo sciopero generale /generalizzato, contro le politiche del governo che trasferiscono i soldi alle imprese, continuano a privatizzare il welfare e peggiorano il sistema pensionistico. Per produrre occupazione occorre ridurre l’orario di lavoro e oggi questo significa ridurre abolire la legge Fornero. Si tratta di lavorare da subito in una azione di convergenza che incida positivamente anche sulla domanda di conflitto che matura nella stessa CGIL. La parola d’ordine di uno sciopero generale, cioè di aprire lo scontro con il governo e le sue politiche, è un punto qualificante dell’alternativa.

In terzo luogo occorre contrapporre al recovery plan del governo un piano alternativo che spenda i soldi in modo diverso. I soldi ci sono, dobbiamo dire noi dove vanno spesi e far vedere agli italiani cosa sarebbe possibile fare con quei soldi. Non basta lamentarsi del governo. Se vogliamo essere classe dirigente dobbiamo dire con chiarezza cosa fare dei soldi che ci sono. Nei tre mesi che ci separano dal Forum questo piano dobbiamo scriverlo e farlo vivere nella coscienza del paese. I programmi sono bandiere piantate nella testa della gente diceva Engels, l’alternativa deve essere visibile, chiara e non solo evocata.

Buon lavoro a tutte e tutti.

Paolo Ferrero, Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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