Osservazioni per una discussione sul rapporto tra astrattezza e concretezza quale aspetto del problema della ricostruzione di un vasto intellettuale collettivo.

 di Leila Cienfuegos  

Ultimamente mi è capitato di leggere sui social diffuse lamentele rispetto al fatto che, durante questa pandemia, una delle cose più penose da sopportare sarebbero stati i “professorini progressisti” che vogliono spiegare agli operai cosa sia una lotta di classe e quali diritti sia giusto difendere a proposito della vicenda dei lavoratori portuali di Trieste e di quelli della Gkn.

Ora, al di là delle prime impressioni, in una sola frase sono racchiusi diversi concetti a mio avviso fuorvianti. Innanzitutto vi è la denigrazione, che sempre più va per la maggiore al giorno d’oggi a prescindere dall’orientamento politico, della funzione degli intellettuali. L’intellettuale rappresenta un fastidioso grillo parlante che spesso non è a conoscenza diretta delle cose che asserisce o, quantomeno, non è avvertito come una autorità in merito ma, al contrario, come un distante privilegiato che non ha alcun polso della situazione né potrebbe essere altrimenti, giacché per definizione l’intellettuale non si “sporca le mani”. In secondo luogo vi è, a contraltare, una santificazione del ruolo del lavoratore ma non del lavoratore qualsiasi bensì unicamente del lavoratore di fatica. Costui assurge direttamente al ruolo di avanguardia progressista, la sua lotta spesso viene percepita come incarnare a priori il bene assoluto in ragione della genuinità della sua fatica quotidiana che quindi risulta valevole a collocarlo di diritto all’interno di quella che noi comunisti chiameremmo classe per sé.

Rispetto al primo concetto va certamente notato quanto possa esserci del vero in parte, giacché come è noto viviamo una tragica mancanza di intellettuali realmente organici alla classe subalterna. Tuttavia una questione di rilievo e non da sottovalutare è rappresentata da quanto danno abbia prodotto negli ultimi decenni “populisti” l’idea della svalutazione del lavoro intellettuale, della sua presunta separazione dal lavoro manuale, dell’inutilità, infine, della costruzione di un apparato teorico che possa e debba confrontarsi dialetticamente con l’universo “pratico”, mettendosi alla prova nel mondo reale.

Rispetto al secondo concetto vi è ovviamente da osservare che non c’è, in realtà, alcuna ragione né di escludere altri tipi di lavoratori dal podio di coloro verso cui solidarizzare e interessarsi, né di operare tale automatismo tra coscienza di classe (presunta) e qualità di operaio se non una ragione di natura consolatoria/autoassolutoria: per avvalorare questa o quella posizione da assumere in un dato momento si cerca un qualche riscontro di (altrettanto presunta) lotta di classe nella società reale.

Il retaggio novecentesco può essere senz’altro fuorviante in questo senso. In base a questo retaggio, infatti, che funzionava e ha funzionato molto bene sino a qualche decennio fa, si spiega il motivo per cui la tuta blu rappresenta in sé l’ultimo baluardo vivente di un’epoca in cui nella società era direttamente viva e operante la “visione del mondo alternativa” rappresentata dai comunisti e dal loro radicamento nei territori, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e financo nella vita culturale del Paese. La tuta blu esemplifica la portata e il valore di quelle lotte e del livello di coscienza di classe collettiva raggiunto prima di venire eroso, inesorabilmente, pezzo dopo pezzo, da decenni di lavorio delle classi dominanti organizzate e sempre più a ranghi serrati tanto sul piano nazionale quanto sul piano sovranazionale. Ciò non significa che quella cassetta degli attrezzi sia piena di “vecchi arnesi”, è anzi vero il contrario. Ma se anche a tutt’oggi la classe operaia latamente intesa rappresenta ancora la classe potenzialmente rivoluzionaria, ciò non significa che essa sia in grado di divenire tale senza la necessaria funzione di organizzazione di avanguardia rappresentata dai comunisti nei luoghi di lavoro e sappiamo tutti purtroppo bene quanto poco o nulla siamo ridotti a svolgere questa funzione oggi. Insomma, nulla toglie che anche dei lavoratori operanti in settori tradizionalmente ad alta conflittualità possano essere, in realtà, egemonizzati da logiche reazionarie e/o di delega e disimpegno, eventualità che elimina alla radice la possibilità – per l’appunto, si diceva, consolante – di dare per assodato che qualsiasi focolaio di lotta intrapreso in tali settori sia di per sé progressista.

Ovviamente tutti noi sappiamo e abbiamo pienamente coscienza di quanto tutto ciò sia vero, ma perché, allora, cadere facilmente e diffusamente, ancora, in questo genere di abbagli?

La caduta del Pci storico, l’erosione della potenza e della capacità di incidere nel reale di quella visione del mondo alternativa ha, a mio avviso, mietuto vittime (le prime vittime, a giudicare dalla rapidità con cui illo tempore si decretò disciolta l’esperienza del partito comunista in Italia) proprio tra le file dei nostri militanti ovunque poi si siano essi collocati. Anche l’estrema frammentazione odierna si spiega attraverso questa drammatica esperienza che ci ha resi orfani del nostro glorioso passato e della stessa idea che fosse possibile, ancora, nonostante la momentanea sconfitta, rialzarsi e formulare nuove proposte, nuove modalità adatte alla fase e ai tempi in mutamento, per riportare in auge i nostri ideali di speranza e di “futura umanità”. Questo funerale prolungato nei decenni, queste esequie eterne, ci hanno spinti, di fatto, ad avere a che fare talmente tanto e talmente a lungo con la tristezza della perdita, col rimpianto per ciò che fu, che, come una vedova che ha perso l’amore in guerra, tiriamo avanti la baracca coi cocci che restano, sempre più esausti, sempre meno convinti, in attesa di un evento agognato e improbabile che ci ridoni la scintilla della vita. Nel frattempo, però, che l’illusione la fa da padrona come argine necessario, financo psicologico, al sentimento di sconfitta entrato ormai nelle viscere di ogni circolo, sezione, casa del popolo, sperimentiamo un altro tragico risvolto del lutto: la paura del vuoto, della scomparsa anche di ciò che si è rappresentato. E come i famosi sepolcri foscoliani, monumenti inutili ai morti ma efficaci strumenti per i vivi, il timore della perdita di identità ci porta a combattere una sanguinosa gara a chi incarni più autenticamente, nuovamente vivificandolo, ciò che è stato. La nostra frammentazione, estrema, ottusa, che sempre più pare peggiorare anziché regredire, è figlia a mio avviso di questa orfanezza disperata della quale soffriamo tutti e di fronte alla quale in buona fede (almeno in principio) tutti abbiamo cercato di reagire, ma che ancora non riusciamo a elaborare collettivamente, ripiegati nella spasmodica ricerca di una identità a cui (ri)appartenere per non vivere da mortiE di qui la necessità di agganciare le nostre più svariate letture della società odierna e dei suoi fenomeni alle “certezze” del passato, assunte quali assiomi confortanti, la necessità di rimarcare le nostre reciproche differenze nella convinzione di stare compiendo l’importante missione della ricostruzione nel solco corretto, la necessità, insomma, non diversamente da quanto facciano le persone fuori dai nostri “giri” militanti, così educate dalla cultura egemonica delle classi dominanti, di ripiegare nel protagonismo individuale che – agevolato dalla logica con cui funzionano i social – ci dona la pregevole sensazione di poter “influenzare” quanto ci circonda col nostro giudizio su tutte le cose, foss’anche sprezzante, lanciato a fluttuare nel web che è progettato per incontrare, in realtà, solamente l’interesse di chi già la pensa più o meno come noi e nulla più (le famose “bolle” social).

Tutto ciò premesso, mi pare che si possa iniziare a concludere che, complice questa assurda frammentazione e la stessa logica di funzionamento dei mutati sistemi sociali in cui ci troviamo a operare, ci sia il concreto rischio che, così come i singoli, anche le organizzazioni comuniste siano oggi in grado di asserire una cosa e domani il suo contrario. Non nel senso di assumere posizioni coscientemente contraddittorie ma nel senso che, mancando totalmente la proposizione di una linea autonoma e positiva che viene invece sostituita da logiche di posizione e opposizione a ciò che dice la controparte di turno, sostanzialmente si rischia di formulare una posizione politica a partire da ciò o chi contro cui “per principio” bisogna scagliarsi in quel determinato momento, generando non di rado paradossi secondo cui ci si contraddice con quanto detto in precedenza e/o si assumono rivendicazioni che in altri contesti sarebbero stati propri della “controparte” stessa: la “diatriba processuale” in voga nella società odierna e fomentata dai social e dalle pessime e opportunisticamente orientate modalità di informazione dei mass media generano, vittima anche il nostro universo politico, un folle giochino che in fin dei conti va tutto a vantaggio del rafforzamento del capitalismo stesso nella sua funzione di frammentazione umana, sociale e ideologica.

Solo la costruzione di un quanto più possibile vasto intellettuale collettivo può invertire la sciagurata rotta che ci ricaccia sin da troppo tempo nella più frustrante risacca se non direttamente a prendere batoste ora su questo, ora su quello scoglio. Solo l’intellettuale collettivo vasto rompe gli schemi dell’individualismo “influenceristico” che fa delle particolarità sconnesse le protagoniste indiscusse e, spesso, inconcludenti del dibattito politico. Solo l’intellettuale collettivo vasto può dotarci di quelle spie, di quei sensori variamente collocati nella società che possano ridarcene un’immagine quanto più reale e concreta possibile, non l’immagine distorta che ci formiamo “a nostra immagine e somiglianza” perché eternamente bloccati nel confronto coi soli sodali che, appunto, già la pensano in tutto e per tutto come noi e che, pertanto, consegnano una esperienza di vita, di lavoro, di confronto nella società che in poche cose possa discostarsi dalla personale comfort zoneSolo il dibattito interno (anche serrato e infuocato, se necessario) di un intellettuale collettivo vasto può, infine, restituire ai comunisti quella scintilla vivificante che ne giustifica la imprescindibilità per il progresso della società umana e che occorrerebbe per elaborare definitivamente il lutto della sconfitta e uscirne rinvigoriti: sto parlando della capacità di operare nella società come necessario elemento dialettico tra una visione realmente alternativa del mondo e le condizioni reali, pratiche, dalle quali partire per rivoluzionare l’esistente.

Il ruolo di un intellettuale collettivo vasto, infatti, consiste proprio in quell’analisi elevatissima della realtà che ci permette, per esempio, di comprendere perfettamente che è insito nel funzionamento del sistema capitalistico il generarsi di pandemie come quella che stiamo affrontando (nessuna attenzione o investimento nell’affrontare in maniera sana e priva di rischi l’interconnessione tra salute umana, animale e ambientale) e che, a rigor di logica, per combattere una pandemia simile – e prevenirne delle altre – è necessario intervenire sulle c.d. politiche one health, sull’investimento e potenziamento del settore sanitario e degli altri settori pubblici e via dicendo, e che dunque i vaccini, peraltro propinati nel caos e nella furia sperimentati, non rappresentano la sola e unica risposta possibile. Allo stesso tempo, tuttavia, a fronte di una così cristallina presa di coscienza del problema e delle sue teoriche cause e soluzioni, è sempre l’intellettuale collettivo vasto che, relegando all’angolo ogni ripiegamento individualistico, ci impone di declinare quanto di “astratto” acquisito – non nel senso di “generico inconsistente” bensì nel senso di ragionamento ancora puramente teorico – con quanto di “concreto” vada detto o fatto – non nel senso di “fondato” ma nel senso di empirica applicazione all’attuale e immediato stato di cose nel mondo reale. All’interno di questa dialettica è solo e unicamente la propulsione data dall’intellettuale collettivo vasto che ci trae d’impaccio: di modo tale che non si sia più condannati alla marginalità di tattiche che peccano di eccessivo astrattismo e/o individualismo o, al contrario, di eccessivo opportunismo, praticismo e/o passivismo.

D’altra parte anche osservando la frammentazione attuale del mondo politico comunista si può agevolmente osservare come – sempre, beninteso, dando per assodato la buona fede del convincimento di tutte e tutti i militanti politici – vi siano gruppi, movimenti, collettivi o partiti maggiormente improntati a un eccesso di astrattismo e altri, al contrario, volti a un eccesso di realismo: nel primo caso le parole d’ordine elaborate sono, spesso, troppo “avanzate” rispetto alla loro attuabilità concreta contingente, pur essendo altrettanto spesso impeccabili le analisi teoriche che vi stanno a monte; inversamente, nel secondo caso, la sfiducia nel lavoro di formazione e di approfondimento teorico restituisce una analisi del reale che spesso non è scientifica o non è intrisa di sufficiente spirito dell’utopia, per cui ne discende un praticismo sin troppo spinto, una particolarismo situazionale che manca del necessario afflato per racchiudere in sé la complessità e la vastità della realtà sociale.

Sicché l’unità dei comunisti non rappresenta più una tra le parole d’ordine, ma la parola d’ordine. Non più una condizione migliorativa del nostro svariato, incostante, attivismo più o meno codista, più o meno originale, più o meno motivato e via discorrendo ma la prerogativa, la condicio sine qua non di un agire chiaro, individuabile, strutturato, riconoscibile, convincente, vivace, effettivo: capace di scalfire il reale che mai come ora ne ha tanto bisogno

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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