Carlo Musilli
Più che una trappola, quello che Mario Draghi prepara per i sindacati sembra un dopolavoro ferroviario: un ritrovo dove passare il tempo senza concludere alcunché. L’appuntamento è per martedì a Palazzo Chigi e l’ordine del giorno parla solo di pensioni, lo stesso tema di cui si è discusso senza frutto durante l’ultimo incontro. In quell’occasione, finì con il Presidente del Consiglio che, seccato, lasciò il tavolo per dedicarsi a un non meglio precisato “altro impegno”.
C’è da scommettere che anche stavolta andrà così, e la ragione è semplice: i sindacati chiedono una riforma delle pensioni che Draghi non ha alcuna intenzione di concedere. In particolare, al centro della piattaforma di Cgil, Cisl e Uil c’è la richiesta di aumentare la flessibilità in uscita per i lavoratori che svolgono mansioni gravose (a cominciare dagli edili, scesi in piazza sabato). “Non possiamo continuare ad avere un sistema pensionistico che ha portato l’età di uscita a 67 anni: bisogna introdurre una flessibilità da 62 anni”, sostiene il segretario della Cgil, Maurizio Landini.
Peccato che Draghi pensi esattamente il contrario. Anche se tutti – partiti e sindacati – fanno finta di non capire, il capo del governo è sempre stato chiarissimo. Secondo lui – lo ha ripetuto più volte – è necessario tornare “alla normalità”, ossia alla legge Fornero dura e pura, senza nemmeno il palliativo di Quota 100 (che in realtà era una fregatura, ma questo è un altro discorso).
Del resto, bisogna essere ingenui o smemorati per aspettarsi un’apertura da Draghi sul fronte previdenziale. Quando a fine 2011 il governo Monti varò la riforma Fornero, seguì le istruzioni messe nero su bianco dall’Europa. E in calce alla lettera che, di fatto, certificava il commissariamento dell’Italia, campeggiava, fra le altre, la firma di Mario Draghi, da poco approdato alla guida della Banca centrale europea. Ora, passati dieci anni, lo stesso uomo siede a Palazzo Chigi per volere (o quantomeno per il piacere) delle stesse istituzioni europee. Come si fa a credere che possa o voglia ascoltare i sindacati?
In teoria, i rappresentanti dei lavoratori hanno più speranze su un altro tema, che non figura nell’agenda di martedì ma di cui quasi sicuramente si parlerà: il taglio del cuneo fiscale da otto miliardi previsto nella legge di Bilancio. Sulla ripartizione delle risorse il governo ha deciso di non decidere, lasciando al Parlamento il compito di scegliere se e quanto investire nel taglio dell’Irpef (che farebbe aumentare le retribuzioni nette) e in ulteriori sgravi alle imprese (si parla soprattutto di cancellare l’Irap).
Anche su questo tema, Landini ha le idee chiare: stavolta i soldi a disposizione per ridurre le tasse devono andare “in un’unica direzione, quella di aumentare il netto in busta dei lavoratori e dei pensionati. Se facciamo la somma delle risorse date alle imprese, a pioggia, dal 2013 al 2021 si arriva a 170-180 miliardi. Abbiamo fatto un Pnrr a sostegno delle imprese. Ora con otto miliardi stiamo chiedendo il minimo indispensabile”.
Confindustria, con la solita sensibilità nei confronti dei lavoratori, rivendica l’opposto, e cioè di poter inghiottire anche questa fetta di torta. Stavolta però c’è la speranza che Bonomi & Co non vengano accontentati: sembra infatti che perfino il liberista Francesco Giavazzi, consigliere economico di Draghi, ritenga che la scelta migliore sia usare tutti i soldi a disposizione per favorire i salari.
D’altra parte, non si tratta di una posizione bolscevica: sono secoli che l’Europa e l’Ocse ci ripetono di abbassare le tasse sul lavoro. Il problema è che, a meno di improbabili emendamenti del governo, sulla questione decideranno deputati e senatori. E Matteo Salvini ha già ricominciato a blaterare di Flat tax per imprenditori e autonomi fino a 100 mila euro.
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