La persona che nell’estate del 2020 uccise due militanti antirazzisti è stata assolta, diventando ancora di più un eroe della destra nazional-populista. Una destra che ancora imperversa in un paese sempre più diviso e pieno di miliziani armati pronti a uccidere
L’assoluzione di Kyle Rittenhouse ha messo a fuoco lo scontro in atto di un’America che stenta a elaborare il trauma trumpista mentre confronta la violenza che satura il paese. Gli omicidi dell’estate 2020 di cui è autore l’allora diciassettenne ex junior cadetto della polizia, patito di videogiochi e seguace di Trump, furono conseguenza quasi inevitabile di quattro anni di sconsiderata retorica amplificata dalla Casa bianca.
L’uccisione dei militanti antirazzisti Joseph Rosembaum e Anthony Huber e il ferimento grave di Gaige Grosskreutz per mano dell’autoproclamato vigilante avvengono il 25 agosto, la seconda giornata della Convention Gop che è in corso a Washington e il Presidente da quel palco encomia subito l’assassino definendolo un patriota. Rittenhouse è consacrato eroe della destra, incarnazione dei metodi forti invocati dalle milizie cui Trump da quattro strizza l’occhiolino, simulacro delle fantasie macho di guerra civile che agitano la destra suprematista.
Un anno dopo il verdetto di Kenosha rappresenta una vittoria di questa idea e per la corrente trumpista per la quale polarizzazione e acrimonia sono prerequisiti di una nuova scalata al potere.
I procedimenti hanno esplicitato profonde correnti “monocratiche” dell’apparato giudiziario americano. Durante il processo il giudice Bruce Schroeder ha polemizzato apertamente con il pubblico ministero e con la stampa, esibendo la schiettezza autoritaria propria di un certo tipo di tiranno da tribunale preminente nella mitologia nazionale, come judge Roy Bean (il giudice che a fine ‘800 emetteva sentenze sommarie da proprio saloon a Pecos, Texas) o Julius Hoffman che nel processo ai Chicago 7 fece imbavagliare e legare alla sedia Bobby Seale delle Pantere Nere. La direttiva di Schroeder che i morti «non potessero venire definiti vittime ma solo riottosi» non ha sin dall’inizio lasciato grandi dubbi su come sarebbe andata finire.
Seguendo le sue istruzioni i giurati sono stati tenuti a isolare i dettagli delle colluttazioni e concentrare il giudizio sul «fragile stato emotivo» dell’assassino. Così la giuria ha sancito per l’ennesima volta la dottrina della “qualified immunity”, la difesa dei poliziotti che sparano giustificandosi poi con la semplice affermazione di «temevo per la mia incolumità». È la stessa, per inciso, usata dal vigilante George Zimmerman quando nel 2012 ha ammazzato Trayvon Martin, diciassettenne disarmato che riteneva “sospetto”, un delitto simbolo della moderna stagione dei linciaggi e della resistenza Black Lives Matter.
Abbinate alle leggi “open carry,” autorizzanti il porto d’armi generalizzato, queste norme compongono una giurisprudenza sempre più consolidata del più forte: chi spara prima e sopravvive può dichiarare (a patto di non avere la pelle troppo scura) di aver temuto per la propria sicurezza e farla franca.
A livello costituzionale anni di deriva reazionaria hanno portato a estrapolare dalla dottrina delle “milizie popolari” menzionate nel famigerato secondo emendamento della Costituzione, un più generale “diritto fondamentale all’autodifesa”.
La Corte Suprema, blindata dalla destra radicale si appresta ad esempio ad abrogare le pur pallide norme sul porto d’armi che vigono nelle aree metropolitane degli stati “blu” dato che, come hanno sostenuto i giudici Roberts, Alito e Kavanaugh, «i cittadini hanno il sacrosanto diritto di difendersi con le armi nelle aree pericolose del paese». Sono facilmente immaginabili le conseguenze di tale dottrina su un paese saturo di armi da fuoco e infiammato dall’odio.
È in questo contesto politico che il giudice ha ordinato ai giurati di mettere da parte altre considerazioni nel loro verdetto. Ma è tornato subito evidente dopo la lettura della sentenza: mentre in rete fioccavano immagini di “permessi di caccia al liberal”, diversi parlamentari trumpisti al ragazzo vigilante hanno fatto pervenire offerte di assunzione e si è aperta la gara per cooptare “il patriota” a nuovo simulacro del “boogaloo,” la guerra civile che in cuor loro le frange estremiste hanno già dichiarato alla modernità e alla democrazia.
Per questo per Rittenhouse è virtualmente assicurato un ruolo di rilievo nella rappresentazione dell’insurrezione nazional-populista, un simbolo come i coniugi McCloskey, quelli che erano usciti dalla loro villa di St Louis per puntare armi da fuoco contro un corteo di Black Lives Matter (poi ospiti Vip alla Convention repubblicana).
La congiunzione fra feticismo nazionale per la potenza di fuoco e la radicalizzazione ormai compiuta della destra americana in forza eversiva ha nel verdetto di Kenosha l’ultimo frutto avvelenato – ma difficilmente sarà l’ultimo.
Quello di Rittenhouse era uno di vari concomitanti processi al suprematismo tutt’ora in corso, compresi quelli agli insurrezionalisti del 6 gennaio e la commissione d’inchiesta parlamentare sul tentato golpe trumpista dell’Epifania. Ancora da venire sono gli esiti del processo civile agli organizzatori del mortale summit neonazista “unite the right” del 2017 a Charlottesville e del procedimento penale a carico degli assassini di Ahmaud Arbery in Georgia. Per giudicare quest’ultimo linciaggio è stata selezionata una giuria composta di 11 bianchi e un solo afroamericano.