Sono più di due, ma essenzialmente sono due i punti eclatanti, quelli che saltano all’occhio anche del meno esperto di questioni politiche, sindacali, economiche, fiscali e di bilancio in generale.
Due punti della politica del governo che vanno a colpire le già precarissime condizioni di sopravvivenza di larga parte della popolazione: il primo riguarda le decontribuzioni per le fasce al di sotto dei 30.000 euro, che avrebbe dovuto essere finanziato con quello che Draghi ha definito un “intervento di solidarietà” da applicarsi nei confronti di chi ha un reddito annuo superiore ai 75.000 euro; il secondo punto, invece, riguarda le pensioni e il risicatissimo fondo destinato ad una perequazione delle stesse rispetto al costo della vita, all’impatto inflattivo pesante che si preannuncia per il 2022.
Questi sono i due ultimi punti di conclamata antisocialità che il ministro Orlando non percepisce, che Draghi nega, che invece Italia Viva e Forza Italia rivendicano con orgoglio come pietre angolari, inamovibili e irrinunciabili per fare della manovra economica qualcosa che non sia spostata così a sinistra, nell’orrorifico senso della progressività fiscale, del prelievo sui redditi maggiori, dell’affrancamento del disagio di quella grande parte di salariati, fissi o precari che siano, che è abituata a vedersi scaricare addosso tutti i costi delle crisi globali che si riflettono sui ristretti ambiti nazionali.
In questo quadro di rinnovo di una devastazione sociale aggravata dalla crisi pandemica, si inserisce l’opportunità finalmente messa in campo da CGIL e UIL di uno sciopero generale: tardivo, ma comunque imprescindibile, soprattutto se si considera il fatto che, cadendo temporalmente alla vigilia delle festività, creerà qualche difficoltà in più a quel mondo dell’impresa che sbraita da mesi per avere sempre maggiori finanziamenti dal PNRR senza restituire nulla in cambio a chi lavora davvero, a chi produce tutte quelle merci che vengono scambiate sui mercati di mezzo mondo (l’altro mezzo resta a guardare l’ineguaglianza della ricchezza distribuita…) e ne riceve i più miserevoli salari d’Europa in contropartita.
Lo sciopero generale del prossimo 16 dicembre si preannuncia, dunque, come un atto di recupero della dignità sindacale, della lotta di classe, della rivendicazione di diritti che sono stati mercanteggiati fin troppo a lungo in questi mesi con un governo che, non fosse altro per la sua fisiognomica politica ed economica, è proprio fisicamente e costituzionalmente impossibilitato a guardare alle problematiche sociali e al disagio diffuso.
La prima preoccupazione di Draghi sono le imprese e la loro tenuta nello scenario della mediazione statale sul PNRR di origine europea: quel grande, enorme prestito condizionato a riforme istituzionali di un certo peso, è in questo momento il punto di partenza di una vasta ristrutturazione liberista del patto tra padronato e politica, tra alta finanza e rivisitazione dei rapporti di forza tra le classi in Italia.
La manovra finanziaria spende cifre ridicole sulle pensioni (appena 600 milioni di euro), sostenendo un ritorno alla Legge Fornero che è forse ancora peggio della micragnosità draghiana nel merito; per non parlare dei comparti dell’istruzione e della sanità dove si fa sentire ancora la deflagrante eco dell’autonomia differenziata, di una concessione alle regioni di amministrare risorse che invece andrebbero centralizzate e distribuite con una inversione proporzionale di affido dei finanziamenti. Invece, nonostante il PIL della Lombardia sia quattro volte quello della Sicilia, la penalizzazione delle aree meno produttive del Paese sembra quasi una condanna per un senso di colpa mai avuto da questi territori nei confronti delle zone più ricche del centro-nord.
Ma c’è, inoltre, tutto un pregresso che si tende a dimenticare quando si analizzano i numeri della legge di bilancio. Almeno di quella attuale. Si tratta di tutta la politica economica del governo messa in essere fino al settembre scorso: liberalizzazioni e privatizzazioni, la fine del blocco dei licenziamenti e degli sfratti e la legge sulla concorrenza. Tutte misure che sono andate nella direzione opposta di un alleggerimento del costo della vita per le lavoratrici e i lavoratori, per i pensionati e per tutti coloro ai quali a fine salario avanza sempre troppo mese.
Il sindacato ha trattato troppo a lungo con un governo sordido sotto tanti punti di vista. Soprattutto la CGIL avrebbe dovuto tenere conto della quasi totale assenza di una opposizione parlamentare degna di questo nome su questioni che includevano anche aspetti pandemici e questioni emergenziali, ma che prima di tutto riguardavano lo stato sociale (letteralmente inteso) e le dinamiche strutturali dei rapporti tra le generazioni: si è frantumato quel patto che – nella ideologizzazione confindustrial-governativa – legava vecchi e nuovi lavoratori, pensionati e giovani, padri, madri e figli nella reciproca tenuta delle proprie famiglie, del tessuto sociale parcellizzato e atomizzato da una pluralità di inconvenienti sommati ad una altrettanto plurale intenzionalità politica.
La declinazione del liberismo europeo nel contesto italiano ha assunto con grande piacere i tratti del compromesso di unità nazionale, della compartecipazione di progressisti, riformisti e conservatori liberali ad una ristrutturazione capitalistica unica nel suo genere e storica, viste le proporzioni dell’intervento europeo tramite il PNRR.
Non c’è dubbio che la situazione di emergenza sanitaria ha giocato a favore di questo occultamento di manovre governative, di ricollocazione della montagna di risorse impiegate per evitare il collasso della fragile imprenditoria italiana che non ha investito nell’ammodernamento dei cicli produttivi, delle strutture annesse e connesse, della tutela dei lavoratori da uno stillicidio di infortuni e morti nei cantieri e nelle fabbriche; badando così di più alla rincorsa concorrenziale rispetto alla qualità del lavoro e facendone ancora ricadere l’intero costo proprio sulle maestranze e sull’intera collettività.
Ma i segnali, pandemia o no, c’erano praticamente tutti: i discorsi di Bonomi all’assemblea nazionale di Confindustria; la calorosissima ovazione riservata a Mario Draghi, considerato persino troppo pontiero tra le varie anime della sua maggioranza, in particolare modo nei confronti del PD e dei Cinquestelle visti impropriamente come settori “progressisti” dai falchi del padronato. Landini sapeva già da tempo che il governo avrebbe illuso il sindacato e avrebbe dilatato i tempi per arrivare quasi a ridosso della manovra promettendo modifiche che non sono state nemmeno prese in considerazione.
L’accusa mossa alla FIOM di voler organizzare uno sciopero generale separato è ingenerosa: l’organizzazione dei metalmeccanici vede infatti anzitempo le mosse del governo; in particolar modo in riferimento alla vertenza degli operai GKN che vengono licenziati due volte, con due avvisi e con un ministero del lavoro praticamente inerte, silente. Nemmeno a riguardo del tema della transizione ecologica, che coinvolge tanti settori produttivi, centinaia di migliaia di lavoratori, l’esecutivo si sta mostrando particolarmente interessato ad una pianificazione condivisa. Non c’è proprio la volontà di costruire una visione uniforme, sincretica e dinamica al tempo stesso tra i vari ambiti di intervento sia sociale, sia ambientale e, quindi, economico.
Il mondo del lavoro viene quindi lasciato in balia dei riflussi italiani ai condizionamenti pandemici internazionali e alla fluttuazione degli indici di borsa mediati dalla Commissione e dalla Banca europea, i famosi 8 miliardi di euro destinati alla riduzione delle tasse, bollette luce e gas comprese, sono spalmati su scaglioni fiscali ridotti e quindi a tutto vantaggio dei ceti medio alti, senza prendere minimamente in considerazione i redditi da lavoro (quelli sotto i 25.000 euro annui).
Sono precise scelte politiche che obbediscono ineccepibilmente ad una logica liberista: favorire la classe media, proteggere da nuove tassazioni quella alta e far pagare la moltitudine, quell’80% della popolazione che rientra a varo titolo nelle categorie del lavoro salariato, della dipendenza da contratti precari e, inoltre, del tanto lavoro in nero che viene escluso dai conti meticolosi delle ragionerie ministeriali e, pertanto, anche dalla distribuzione delle briciole cadute dalla tavola del governo.
Lo sciopero generale, così, diventa soprattutto un atto politico, anche se deve mantenere ufficialmente i contorni formali dell’atto tutto rivendicativo e sindacale: proprio la mancanza dell’opposizione politica in Parlamento e la quasi inesistente intermediazione di partiti comunisti e progressisti in questa fase tra lavoratori e istituzioni, assegna alla mobilitazione indetta da CGIL e UIL un valore aggiunto, una supplenza alle manchevolezze di una sinistra incapace di parlare alla gente, ai moderni proletari e, invece, così tanto esperta nell’autoreferenzialità, nel compiacimento per la propria coerenza nell’applaudire ad una movimentazione sociale che non nasce dalla mobilitazione costante, dalla critica consolidata verso un governo amicissimo dei padroni e dell’alta finanza.
L’ultima speranza di risposta sociale oggi è tutta affidata al sindacato. Sarebbe pure una bella notizia, se non fosse che oltre ciò non c’è proprio niente da contemplare, niente cui affidarsi per continuare la lotta dopo le manifestazioni del 16 dicembre. Continueremo a discutere fra noi dell’importanza di questa o quella vertenza, ma non ci sarà nessun partito di massa, comunista o anticapitalista che sia, a recepire queste istanze a tornare ad essere il luogo politico della lotta di classe: dove, dopo essere nata proprio nei centri produttivi, viene coltivata culturalmente, socialmente e le viene dato un indirizzo per lavorare alla trasformazione del Paese. Dal basso e orizzontalmente.
MARCO SFERINI