Come si spiega il paradosso dell’impossibilità di attuare le politiche classiche di redistribuzione della socialdemocrazia e la perdurante nostalgia per questo movimento da parte di intellettuali e classi medie? Il compito dei comunisti per la Rivoluzione in Occidente.
Perdura la nostalgia della socialdemocrazia. È un sentimento così forte che pervade schieramenti politici che spesso non hanno molto a che fare con la matrice originaria, classi sociali diverse e che trascende persino l’esaurimento oggettivo della sua funzione politica. Perché mai questo “spettro felice” continua ad aggirarsi tra noi?
Innanzitutto, bisogna ricordarne la storia. Eh sì, perché la socialdemocrazia non è sempre stata la stessa. Marx ed Engels viventi (che non ne apprezzavano il nome) essa fu il marxismo stesso; rappresentò la corrente teorica maggioritaria del movimento operaio uscita vincente dalla lotta contro l’anarchismo di Proudhon e ancor più di Bakunin. E continuò a essere il marxismo ufficiale fino allo scoppio della Prima guerra mondiale imperialista e al vergognoso tradimento rappresentato dal voto della socialdemocrazia tedesca a favore dei crediti di guerra.
Poi la sua funzione divenne meno chiara, ambigua, vi furono più socialdemocrazie: da una parte quella maggioritaria, come la tedesca ai tempi della Repubblica di Weimar: quella dei Noske e degli Ebert che furono tra i responsabili politici della persecuzione degli spartachisti di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht, vera e propria agenzia imperialista nelle fila del movimento operaio; dall’altra, quella degli indipendenti di Kaustky o del Psi in Italia con la quale i comunisti hanno comunque avuto un rapporto difficile, ma che è rimasta su posizioni di difesa delle condizioni di vita del proletariato: potremmo dire l’ala destra del movimento operaio.
Dopo la Seconda guerra mondiale il movimento socialdemocratico ha fatto la sua scelta pro-occidentale, tranne che in alcuni paesi dell’Est come la Repubblica Democratica Tedesca dove i socialisti e i comunisti hanno dato vita al partito unificato della Sed (si pensi a Otto Grotewohl che è stato anche presidente del consiglio della Rdt).
All’Ovest questa scelta ha preso quasi sempre il significato del cambio di fronte, del passaggio al servizio del capitalismo, ma rimanendo sempre con i piedi fortemente ancorati sul terreno delle condizioni di vita del movimento operaio.
La socialdemocrazia dopo il crollo del muro
Con il crollo del “socialismo reale” i partiti socialdemocratici hanno subito l’ennesima mutazione abbandonando definitivamente qualsiasi connotazione anche solo di un radicamento classista, abbandonando a se stessi i sindacati e infine abbracciando espressamente il liberalismo: il caso italiano del passaggio dai Democratici di sinistra al Partito democratico è stato solo quello più manifesto ed eclatante, ma trasformazioni simili sono avvenute dovunque in Europa (si veda anche il caso del Labour di Tony Blair).
Sul piano sociale, i socialdemocratici sono passati così dalla rappresentanza delle classi popolari (operai e piccola borghesia) alla rappresentanza di classi medie e medio-alte in ascesa grazie allo sviluppo del capitalismo aggressivo e liberista sorto alla fine degli anni Settanta: si è passati dalla difesa e dallo sviluppo del welfare state alla colonizzazione liberista degli spazi interni alle stesse società occidentali (privatizzazione dell’acqua e di altri beni comuni, della sanità, della scuola ecc.), oltre che alle imprese neocolonialiste nel Sud del mondo.
La morte della socialdemocrazia classica ha però lasciato un vuoto nello spazio politico della rappresentanza e un lutto tra i suoi tradizionali “clienti”, intesi nel senso latino della parola come pezzi di società portatori di bisogni sociali tradizionali di assistenza: pensioni, sanità e istruzione pubblica, diritto alla cultura ecc.
L’impossibilità, il bisogno di socialdemocrazia e il feticcio della sinistra in Italia
Qui sta il paradosso socialdemocratico: a fronte di un esaurimento oggettivo della funzione politica redistributiva di questo movimento, dato che il capitalismo liberista non può più permettersi di concedere nulla dovendo concentrare tutte le proprie energie nell’estrazione sempre più difficoltosa di plusvalore sul terreno della concorrenza globale e, quindi, del contenimento estremo dei costi di produzione diretti e indiretti, permane tuttavia un bisogno politico della socialdemocrazia e del keynesismo in economia; presente soprattutto nei ceti medi cosiddetti riflessivi (intellettuali, lavoratori della conoscenza), ma anche in alcuni strati (sempre meno a dir la verità) della classe operaia.
Di qui ne sono conseguiti tanti tentativi di sostituzione vicaria sul terreno della rappresentanza politica. Se ci atteniamo all’Europa possiamo prendere come esempi lo spagnolo Podemos, la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, Syriza di Tsipras in Grecia, perfino molto più confusamente alcune istanze dei 5 Stelle in Italia, prima della loro parlamentarizzazione.
Laddove queste forze sono giunte al governo di paesi imperialisti hanno sostanzialmente deluso le aspettative redistributive: e per le ragioni sopra accennate non poteva che andare così. Quello che più interessa però è comprendere che i casi di successo elettorale sono avvenuti da parte della sinistra radicale e in alcuni casi perfino comunista e che sono stati preceduti da intense lotte sociali (Grecia, Spagna e anche in Francia). Sulla spinta di queste lotte spesso si sono avviati processi unitari e costituenti che invece in Italia sono falliti proprio in assenza di questa fase preliminare di attivazione sociale o che sono nati su posizioni particolarmente arretrate come quelle dei grillini in ragione della loro debolezza.
Ora ci sono varie lezioni da apprendere da questa storia recente: la più semplice e che riguarda la sinistra italiana (e anche i comunisti) consiste nel fatto che i processi unitari e costituenti non possono avvenire con la fusione a freddo di gruppi dirigenti e nemmeno sul terreno dell’elaborazione comune di programmi per le prossime scadenze elettorali della borghesia. A dimostrarlo, dalla Sinistra arcobaleno in poi, c’è una serie variopinta di insuccessi.
La lezione più complicata è che laddove si riesca a creare una forza unitaria, popolare, di “sinistra”, in larga parte il successo elettorale non corrisponde all’effettivo compito redistributivo che per anni ha svolto la socialdemocrazia.
Che fare dunque? Non c’è una risposta semplice e rapida da offrire per noi comunisti, ma credo che dovremmo comunque partire dalla riflessione e dall’apprendimento di quanto scriveva Gramsci nelle pagine sulla Rivoluzione in Occidente, sulla guerra di posizione e su quella di movimento, sulla loro reciproca dialettica e sulla nostra attuale incapacità di alternare rapidamente i due momenti, seguendo la vorticosa rapidità dei tempi.
Sul piano della formazione politica, per esempio, è sempre più urgente “costruire” dei quadri politici delle organizzazioni della sinistra radicale e comunista che siano in grado di agire strumenti giuridici e politici di resistenza ai vincoli neoliberisti quando si trovano al governo di importanti realtà locali. Qualche esperienza in merito è stata accumulata nel bene e nel male nella Napoli di De Magistris come nella Barcellona governata dalla Colau.
Sul piano più generale però, diventa urgente intercettare il bisogno redistributivo per portarlo tuttavia su posizioni di lotta, rivendicative e non più di semplice delega elettorale a un ceto politico che finisce per tradire il mandato. Ancor più specificamente, attraverso queste lotte e queste rivendicazioni bisogna saper costruire istanze di democrazia partecipata dal basso nei luoghi di lavoro e nei quartieri alle quali spetta dettare i passi in avanti e indietro dei dirigenti politici della sinistra radicale. L’alternativa a questo approccio è piuttosto conosciuta e triste: ripetere i fallimenti e i tradimenti del passato o ridursi all’inutile e dannosa scelta di votare per il finto centro-sinistra per impedire l’ascesa al governo della destra fascista e populista
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