Sono ormai mesi che si susseguono morti, violenze e negazione dei diritti umani al confine fra il regime di Lukašėnka e Polonia, Lituania ed Estonia. La destra xenofoba “fa il suo dovere” mentre l’Ue tentenna, ma c’è chi si mobilita dal basso

Un inverno freddo si estende sull’Europa nord-orientale. E non solo per le temperature (nella notte di martedì -9° a Białystok, Polonia, -8° a Grodno, Bielorussia, -10° a Druskinkai, Lituania), che si preannunciano comunque rigide, ma soprattutto per quella che è una situazione di “crisi” ed “emergenza” in ambito migratorio ormai conclamata da mesi. Per avere fin da subito un’idea della gravità di quanto sta accadendo, valgano le testimonianze rilasciate a DINAMOpress dal collettivo polacco di ispirazione anarchica NoBorders Team, che da mesi prova ad aiutare chi sta al confine:

«Le condizioni in cui troviamo chi passa la frontiera sono terrificanti. Tutti hanno subito violenza da parte dei servizi bielorussi. In generale, le persone sono vittime di pesanti pestaggi. Alcune donne sono state stuprate così tante volte che non riescono più a muoversi se non su di una sedia a rotelle. Abbiamo anche incontrato persone che hanno venduto un rene per pagarsi il viaggio in Europa, cosa che chiaramente le rende più fragili ed esposte alle avversità».

Anche il report rilasciato un paio di settimane fa dal gruppo di Ong polacche Grupa Granica (probabilmente il documento sino a ora più completo su ciò che sta avvenendo alla frontiere dal giugno scorso alla frontiera fra Bielorussia e Polonia, Lituania, Estonia) è parecchio perentorio: «La crisi umanitaria di cui siamo stati testimoni negli ultimi tre mesi […] non ha precedenti in Europa», si legge già dalle righe iniziali dell’introduzione. «Ma vogliamo sottolineare che ciò che sta accadendo al confine fra Polonia e Bielorussia non è una crisi migratoria. La situazione attuale infatti non è stata causata da alcuna guerra, disastro naturale o improvviso cambio di potere nella regione».

(immagine di Homoatrox da commons.wikimedia.org)

GLI ANTEFATTI

Ciò che sta succedendo lungo in confini dell’Europa nord-orientale trova infatti la sua radice in una combinazione di responsabilità, dalle strategie geopolitiche del presidente della Bielorussia Aljaksandr Lukašėnka e la “benevolenza” della vicina e alleata di comodo Federazione Russa a guida Vladimir Putin, fino alla xenofobia conclamata o strisciante dei governi in carica nelle nazioni confinanti di Polonia, Lituania, Estonia e alle politiche di respingimento dell’Unione Europea. Nell’agosto 2020 le elezioni tenutesi a Minsk avevano decretato con l’80% circa di voti favorevoli lo strapotere del leader bielorusso, ma già da mesi si verificavano proteste di piazza e cortei (in seguito soprattutto al fatto che il principale candidato d’opposizione, il blogger e outsider Sergeij Tichanovskij, venne incarcerato e così estromesso dalla corsa alla presidenza) continuate per vario tempo. Ne seguirono arresti indiscriminati e relative sanzioni da parte di Ue, Usa e Gran Bretagna nei confronti del batka (“babbo”, come si fa chiamare Lukašėnka).   

A complicare il quadro, altri importanti eventi tra cui il dirottamento da parte del regime di Minsk di un volo Ryanair per arrestare l’oppositore Roman Protasevich lo scorso maggio (per cui sono state applicate ulteriori sanzioni Ue-Usa) e un presunto tentativo di colpo di stato che apparentemente prevedeva l’uccisione del leader insediatosi al potere nel 1994.

In Bielorussia, insomma, vige una situazione in cui – citiamo dall’articolo di Mauro De Bonis apparso su “Limes” 6/2021 – «dissenso e tensioni sociali […] non sono […] diminuiti, soltanto repressi. E le pressioni esterne sono aumentate a dismisura» e in conseguenza della quale Lukašėnka «ha iniziato a stringere i ranghi a circondarsi di servitori fedeli reclutati tra servizi di sicurezza e Forze armate. Uno stuolo di seguaci pronto a difenderlo, ma forse anche a mollarlo in assenza di adeguate contropartite o in caso di crisi irreversibile».

Sembrerebbe che la stessa ambasciata bielorussa a Erbil sia coinvolta nel meccanismo, così come una dozzina di compagnie aeree operative fra Minsk e il Medio Oriente. Fatto sta che a partire dalla scorsa estate il numero di migranti che provano a entrare nella Comunità attraverso la rotta est-europea è aumentato sensibilmente.

Nel solo mese di ottobre, sono stati registrati 11.300 tentativi di passare illegalmente il confine fra Bielorussia e Polonia (quando lungo l’arco di tutto l’anno il totale si aggira attorno ai 23mila).

In sostanza, il regime di Minsk utilizza i e le migranti come “pedine” per porre pressione alla sua frontiera occidentale. Le persone che arrivano da Iraq, Dubai, Libano o Turchia vengono spesso rinchiuse in alcuni centri di detenzione per poi essere “spinte” verso Polonia, Lituania ed Estonia. Vengono costrette ad accamparsi dentro le sterminate foreste di quei territori. Se fanno ritorno, picchiate, torturate e spinte nuovamente al confine dove non trovano un trattamento granché diverso.

LA FORTEZZA SI BARRICA             

Dall’altra parte, infatti, la risposta degli stati di frontiera e dell’Unione Europea è stata sinora largamente insufficiente quando non direttamente repressiva nei confronti dei migranti. La destra nazionalista e ultra-cattolica del partito Pis alla guida del governo polacco ha sostanzialmente continuato a portare avanti le proprie politiche anti-migratorie, addirittura intensificandole: se pensiamo che durante la crisi migratoria del 2015 il neo-eletto Jarosław Kaczyński decise di recidere l’accordo stretto con la Commissione Europea per la ridistribuzione dei rifugiati fra gli stati membri, non stupiscono le dichiarazioni del 20 agosto da parte del deputato Pis Piotr Gliński: «La Polonia si è difesa contro l’ondata di rifugiati del 2015 e farà in modo di difendersi anche da quella attuale».

(dalla pagina Facebook di NoBorders Team)

Più concretamente: sempre il 20 agosto, il Ministero degli Interni ha promulgato un nuovo regolamento secondo il quale ogni persona che avesse attraversato illegalmente il confine sarebbe dovuta essere respinta, legalizzando di fatto le “espulsioni”; il 2 settembre il governo decide di introdurre lo “stato di emergenza” della durata di tre mesi (il massimo consentito dalla Costituzione) nelle regioni di confine di Lublino e della Podlachia con cui si vieta l’ingresso anche a media e Ong, lasciando di fatto sul campo solo la Guardia di Frontiera (attualmente dovrebbero essere presenti circa 15mila unità); il 2 novembre il presidente Andrzej Duda ha firmato una legge per la costruzione di una recinzione alta sei metri lungo la frontiera (per la quale sono stati investiti oltre 300 milioni di euro).

Il tutto accompagnato da una retorica che di umanitario o anche solo di minimamente “umanizzante” ha ben poco: a settembre, durante una conferenza stampa, il ministro dell’interno Mariusz Kamiński ha reso pubbliche delle immagini raffiguranti atti di pedofilia e zoofilia a sua detta ritrovate nei cellulari di alcuni migranti al confine, che avrebbero giustificato l’incremento delle misure di sicurezza (immagini che, si è scoperto poco dopo, erano da tempo disponibili su Internet e nulla c’entravano con le persone alla frontiera).   

Dal canto suo, anche il governo di centro-destra della Lituania ha intrapreso misure non dissimili: già a luglio, infatti, la repubblica baltica aveva introdotto un primo stato di emergenza su tutto il territorio per «rafforzare le proprie difese»; così, due settimane più tardi mentre nel paese arrivavano anche funzionari del programma europeo Frontex, si è iniziato a erigere una barriera di filo spinato lungo il confine fino alla reintroduzione dello stato di emergenza nei territori di frontiera che si estenderà anche a gennaio; l’intento esplicito – come dichiarato presidente della commissione parlamentare sulla sicurezza e la difesa nazionale Laurynas Kasčiūnas – è quello di rendere la Lituania un paese «non attraente per i migranti irregolari» e a questo proposito sono state approvate numerose restrizioni al diritto d’asilo, tra cui la possibilità di essere detenuti fino a sei mesi anche se è stata presentata regolare richiesta il divieto di fare appello alla corte in caso di rigetto (misure che sono state ritenute una «potenziale violazione dei diritti umani» da parte del direttore della Croce Rossa lituana Egle Samuchovaite).    

L’Europa infine, al di là delle dichiarazioni di facciata e dell’impiego dei funzionari di Frontex (quasi esclusivamente con la Lituania, visto che la Polonia ha intrapreso fin da subito un “braccio di ferro” per non collaborare), non sembra fare altro che certificare una tale situazione di fatto.

Anzi, il primo dicembre la Commissione ha proposto delle misure speciali da applicare solo nei tre stati confinanti con la Bielorussia che di fatto renderebbero ancora più difficoltosa e incerta la richiesta di protezione: l’attesa per il processamento delle domande d’asilo potrebbe essere esteso fino a 16 settimane, in cui dunque i migranti verrebbero legalmente detenuti nei centri in prossimità delle frontiere. Qualcosa che, secondo Oxfam, «pone la politica al di sopra delle vite delle persone» e che, come annota Amnesty International, «viola i diritti umani e va a esacerbare la crisi umanitaria». A fine novembre, con l’approvazione del budget per il 2022, l’Ue ha allocato 25 milioni di euro per «proteggere il confine europeo con la Bielorussia» senza specificare come questi soldi verranno utilizzati (anche se Ursula von der Leyen ha dichiarato che la “visione comune” è quella di non prevedere il loro utilizzo per muri o fili spinati).

(da commons.wikimedia.org)

Va inoltre specificato che tutto ciò avviene in un costante processo di “esternalizzazione delle frontiere” da parte dell’Unione Europa che, se in altri contesti come quello turco o libico è molto più diretto ed eclatante, è attivo anche sul “fronte” nord-orientale: è dal 2016 infatti che, attraverso la cosiddetta “Mobility Partnership” Ue e Bielorussia collaborano al fine di «gestire i flussi migratori». A giudicare dagli eventi degli ultimi mesi, non è difficile azzardare quale dei due “partner” di questo accordo abbia il coltello dalla parte del manico.

RESISTENZA E SOLIDARIETÀ   

Se le reazioni dei governi dei paesi confinanti con la Bielorussia e dell’Ue alla crisi umanitaria in corso sembrano abbastanza chiare e, purtroppo, non vanno nella direzione di alleviare le sofferenze per i e le migranti, più difficoltoso è capire come si stia muovendo la popolazione. La società polacca è da tempo innervata da sentimenti xenofobi e reazionari (in cui il partito di Kaczyński pesca a piene mani per il suo consenso), tanto che all’inizio di novembre erano state addirittura organizzate delle ronde per aiutare militare e guardie di frontiera a catturare chi attraversava il confine.

Ma dall’altro lato associazioni di volontariato, società civile e movimenti dal basso si sono mobilitati sfidando le restrizioni del governo e provando per quanto possibile a portare solidarietà a rifugiati e migranti (che, va sottolineato, fra gelo, denutrizione, mancanza di acqua potabile e repressione poliziesca intanto muoiono a dozzine).

Come accennato, già dal 30 agosto in Polonia una trentina di Ong si sono riunite in una “associazione-ombrello” dal nome Grupa Granica e hanno iniziato a collaborare anche con gli abitanti delle città di frontiera (i quali, come racconta il report della stessa Grupa Granica, sembrano gradualmente empatizzare con i migranti, riportando alla propria mente anche «ricordi della guerra, dell’Olocausto e della violenza di stato», e stanno auto-organizzando «raccolte di vestiti, medicine e cibo, viaggi nella foresta per cercare persone bisognose di aiuto»), mentre il 27 settembre un gruppo di attivisti e attiviste ha occupato la sede centrale della Croce Rossa polacca in segno di protesta.

(foto di Sienos Groupé)

Ci raccontano i membri del NoBorders Team: «Il fatto che esista una così ampia e ben organizzata rete di gruppi dal basso è molto incoraggiante, soprattutto nel momento in cui coinvolgono persone che vivono nelle regioni di frontiera e che, nella più parte dei casi, non avevano alcuna esperienza di attivismo. Molte di queste persone hanno iniziato a mobilitarsi in maniera spontanea, semplicemente per aiutare chi ne aveva bisogno. Ma, col passare del tempo e in conseguenza di quanto sta facendo la polizia e della crescente repressione, si è creata una forte opposizione alla gestione militaresca della crisi, un’avversione nei confronti dei funzionari ufficiali e delle organizzazioni di beneficenza. Insomma c’è un processo di politicizzazione in corso».

Le attività che sta portando avanti NoBorders Team al momento riguardano il supporto nei confronti delle persone migranti per presentare domanda di protezione internazionale, metterle in contatto con degli avvocati, ricongiungere famigliari e conoscenti che magari nel frattempo sono stati ricoverati in ospedale e, quando possibile, raccogliere testimonianze sugli abusi della polizia.

In ogni caso, dicono, «evitando il più possibile di sfruttare le sofferenze e di far leva sui risvolti emotivi della situazione. Crediamo infatti che la responsabilità di quanto accade non sia solo del regime di Lukašėnka o di Putin: come mostrano i recenti sviluppi, le politiche anti-migratorie sono inscritte negli stessi fondamenti dell’Unione Europea. Si tratta delle conseguenze dello sfruttamento da parte del Nord Globale di quelle aree su cui ha governato per decenni».

Anche in Lituania stanno nascendo esperienze simili. «Inizialmente il nostro gruppo si è formato e ha agito in maniera molto informale», ci spiega un attivista di Sienos Grupé che opera spesso oltrepassando i dieci chilometri “proibiti” di cuscinetto fra il territorio lituano e la Bielorussia dove vige lo stato di emergenza. «Ora ci siamo strutturati maggiormente e siamo in costante contatto con attiviste e attiviste in Polonia e anche in Bielorussia, dove chiaramente non usano nomi reali e adottano canali di comunicazione criptati per sfuggire alla repressione, riuscendo però a intercettare i migranti respinti aiutandoli poi a ripassare la frontiera. Il nostro è un contesto particolare, in cui la maggior parte della popolazione sembra essere rimasta sostanzialmente indifferente alla questione e appoggia le decisioni governative, sebbene ci sia stata qualche protesta all’inizio della crisi. Esistono anche sigle e associazioni che supportano attivamente la guardia di frontiera, come la Riflemen’s Union».

Tutto ciò non è senza conseguenze: sia in Polonia che in Bielorussia, i membri che portano solidarietà alle persone migranti dal basso vengono multati e (anche se a oggi non si è verificato ancora alcun arresto) è prevista la detenzione per chi viola la zona di stato di emergenza.

Il NoBorders Team, inoltre, riporta di aver subito una perquisizione da parte di polizia e unità anti-terrorismo in cui sono stati confiscati computer e telefoni. Sicuro è che, “dall’alto”, per chi sta alla frontiera giunge ben poco aiuto: l’unica “concessione” concreta da parte delle istituzioni europee è stata l’apertura messa in campo dalla Corte dei Diritti Umani della possibilità una procedura ad interim di richiesta di protezione che in alcuni casi consente ai migranti di evitare il respingimento. Intanto, in vista del Capodanno, sembra essere in arrivo un anticiclone che interesserà tutta l’Europa con un generale rialzo delle temperature. In Polonia si potrebbero addirittura toccare 10 o 13 gradi oltre la media stagionale in un generale “ristoro” e sospensione della rigidità invernale. Certo, per chi ha il privilegio di avere un tetto sopra la propria testa. 

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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