Dal 2 gennaio in Kazakistan si stanno svolgendo proteste antigovernative, sorte per la prima volta nelle città di Jañaözen e Aktau, nella regione di Mangghystau. Inizialmente, i manifestanti asserivano di dimostrare contro l’eccessivo aumento del prezzo del carburante, ma non ci è voluto molto a capire la vera natura di questi moti, ovvero un nuovo tentativo di rivoluzione colorata in seno ad un’ex repubblica sovietica.
Nella giornata del 6 gennaio, infatti, il governo di Nur-Sultan ha introdotto dei prezzi controllati per i carburanti nonché una moratoria sull’aumento delle tariffe dei servizi pubblici per sei mesi e ha vietato l’esportazione di bestiame per sei mesi al fine di stabilizzare i prezzi di carne e verdure: “I limiti di prezzo per il commercio al dettaglio di gas di petrolio liquefatto per il rifornimento di autoveicoli nelle stazioni di servizio sul territorio del Kazakistan sono stati fissati per 180 giorni“, si legge nella dichiarazione pubblicata giovedì sul sito web del governo. “È stata introdotta una regolamentazione statale temporanea dei prezzi di 180 giorni per il commercio di benzina e gasolio“.
Una risposta di questo tipo da parte del governo dovrebbe essere quanto meno soddisfacente per i manifestanti, visto che va anche oltre le richieste stesse di coloro che protestano, ponendo un netto freno all’inflazione per almeno sei mesi. Invece, le violenze stanno proseguendo in tutte le principali città del Paese, comprese Almaty e la capitale Nur-Sultan (ex Astana), dove si registrano sparatorie e morti. Questo dimostra come l’aumento dei prezzi, una questione apparentemente valida e sentita da una parte della popolazione, sia stato utilizzato come pretesto per provocare un tentativo di destabilizzazione del Paese dell’Asia centrale, prevalentemente in funzione antirussa.
Aleksandr Volfovič, segretario di Stato del Consiglio di sicurezza bielorusso, ha correttamente affermato che il Kazakistan sta subendo un’aggressione ibrida proveniente dall’esterno, con l’obiettivo di destabilizzare o addirittura rovesciare il governo del presidente Qasym-Jomart Toqaev: “Gli sviluppi nel paese possono essere descritti come aggressioni ibride esterne. La situazione segue lo scenario familiare di una rivoluzione colorata: le forze esterne e interne correlate stanno cercando di distruggere il governo legittimo con metodi incostituzionali“. La Bielorussia, del resto, ha recentemente vissuto un’esperienza simile, alla quale però è riuscita a rispondere in maniera adeguata.
Anche il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ha commentato quanto sta avvenendo in Kazakistan, affermando che le proteste sono una messa in scena organizzata da forze esterne attraverso l’interferenza dei servizi segreti stranieri, e che potrebbero provocare “centinaia o migliaia di morti e un Paese saccheggiato per anni a venire”. Vučić ha paragonato la situazione kazaka a quella del suo Paese, affermando che, a suo modo di vedere, le stesse forze che hanno fomentato le proteste in Kazakistan potrebbero tentare qualcosa di simile in Serbia.
Come avvenuto nelle altre ex repubbliche sovietiche, l’obiettivo è quello di colpire il Kazakistan per colpire la Russia. Per questo motivo, Mosca non ha potuto far altro che sollecitare l’intervento delle forze militari dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), alleanza difensiva della quale fanno parte Russia, Bielorussia, Armenia, Kirghizistan, Tagikistan e, appunto, Kazakistan. Le forze del CSTO sono infatti intervenute per la prima volta nella storia dalla fondazione dell’organizzazione, nel 1992, come contingente di pace in Kazakistan, su richiesta del presidente Toqaev.
“La Federazione Russa, affermando il suo impegno per gli obblighi di alleanza nell’ambito della CSTO, ha sostenuto l’adozione di misure urgenti a causa del rapido degrado della situazione politica interna e della crescente violenza in Kazakistan. Consideriamo i recenti eventi nel nostro Paese amico come un tentativo violento per mezzo di formazioni armate addestrate e organizzate, di minare la sicurezza e l’integrità dello Stato“, si legge in una dichiarazione rilasciata dal ministero degli Esteri moscovita. Il ministero ha anche sottolineato che Mosca continuerà a lavorare a stretto contatto con il Kazakistan e gli altri alleati della CSTO “per analizzare e sviluppare, se necessario, ulteriori mosse efficaci per facilitare l’operazione antiterrorismo da parte delle forze dell’ordine del Kazakistan e garantire la sicurezza di tutti i cittadini senza eccezione, così come delle infrastrutture vitali“.
Valentina Matvienko, portavoce del Consiglio della Federazione russa, ha avuto a tal riguardo una telefonata il presidente del Senato del Parlamento del Kazakistan, Mäulen Äşimbaev. “Il presidente del Consiglio della Federazione ha espresso parole di empatia e sostegno. In merito alle rivolte scoppiate nella Repubblica del Kazakistan, Valentina Matvienko esprime preoccupazione per la portata delle azioni illegali degli estremisti armati che rappresentano una minaccia non solo per l’integrità e la sovranità della Repubblica del Kazakistan e la vita dei suoi cittadini, ma anche per la sicurezza degli Stati vicini“, si legge nella dichiarazione ufficiale.
L’attacco al Kazakistan era già nell’aria a dicembre, come dimostrano le parole del ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, il quale già lo scorso 30 dicembre aveva ribadito che Pechino si oppone fermamente alle forze esterne che istigano rivoluzioni colorate in Asia centrale: “Come Paesi in via di sviluppo, il nostro obiettivo comune è cercare la pace, lo sviluppo e la cooperazione. Ci opponiamo fermamente a qualsiasi atto unilaterale o egemonico e ci sosteniamo a vicenda nel salvaguardare i nostri interessi fondamentali di indipendenza, sovranità e integrità territoriale”, aveva detto allora il massimo diplomatico cinese. Anche la Cina, infatti, ha importanti interessi in Kazakistan, come l’oleodotto che porta il petrolio del Mar Caspio nella Repubblica Popolare, mentre lo scorso 12 dicembre è stata inaugurata la tratta ferroviaria che collega la città meridionale di Guangzhou ad Almaty.
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Giulio Chinappi – World Politics Blog