Le vicende che hanno visto protagonista il Kazakistan negli ultimi giorni hanno suscitato un ampio dibattito anche all’interno della sinistra socialista occidentale, tra coloro che sostengono la rivolta popolare a prescindere, in quanto espressione della lotta di classe, e coloro che invece evidenziano come gli scontri siano in realtà la manifestazione di un attacco ibrido tramato dall’imperialismo e dalle sue forze alleate all’interno dell’ex repubblica sovietica.

Per fare chiarezza, qualora ve ne fosse bisogno, il Kazakistan ha cessato di essere un Paese socialista nel momento in cui è venuta a mancare l’Unione Sovietica, oramai trent’anni fa. In nessun modo l’odierno Kazakistan può essere considerato un Paese socialista, sebbene l’entità statale mantenga un ruolo molto importante nell’economia del Paese. Possiamo quindi dire che una protesta popolare causata dall’eccessivo aumento dei prezzi di alcune materie prime, in particolare del carburante, potrebbe trovare una sua giustificazione nell’ambito di una lotta di classe per instaurare un governo socialista.

Tuttavia, la realtà ci dice che la protesta per l’aumento dei prezzi ha avuto inizio in due città di secondaria importanza, Jañaözen e Aktau, nella regione di Mangghystau, ma successivamente questa è stata sfruttata da forze organizzate per creare scompiglio nelle principali città sedi del potere, l’ex capitale Almaty e l’attuale capitale Nur-Sultan (già Astana). In nessun modo queste proteste puntavano a resuscitare la Repubblica Socialista Sovietica Kazaka, così come non volevano restaurare il socialismo coloro che si sono resi protagonisti delle varie “rivoluzioni colorate” nelle altre ex repubbliche dell’URSS. Oltretutto, le proteste stanno proseguendo ancora adesso, dopo che il governo ha messo i prezzi del carburante e di altri beni di prima necessità sotto controllo, congelandoli per sei mesi, dimostrando come quello fosse solo un pretesto.

Alcuni affermano che uno dei motivi della protesta sarebbe l’iniqua distribuzione della ricchezza nel Paese dell’Asia centrale, una terra ricca di risorse naturali, a partire dagli idrocarburi del Mar Caspio, dei cui proventi, però, gode solamente una fetta ristretta della popolazione, l’oligarchia economica kazaka. Certamente, dalla fine dell’URSS, alcune famiglie hanno approfittato della situazione per ottenere ricchezze che un tempo appartenevano allo Stato, come avvenuto nelle altre ex repubbliche sovietiche. Eppure, i dati ci dicono che il coefficiente di Gini del Kazakistan [1] (il dato che misura la diseguaglianza) è solamente del 27,5%, uno dei più bassi del mondo, paragonabile a quelli di Norvegia (27%) e Belgio (27,4%), e nettamente inferiore rispetto ai dati di Italia (35,9%) e Stati Uniti (41,4%).

Ancora, se prendiamo il 10% della popolazione più ricca in Kazakistan e lo confrontiamo con il 10% più povero, notiamo che il rapporto di reddito è di 5,3, ovvero i più ricchi guadagnano in media 5,3 volte di più dei più poveri. Anche in questo caso, si tratta di uno dei dati più bassi del mondo, paragonabile – guarda caso – a quello di altre ex repubbliche sovietiche, o di Paesi nordeuropei come Islanda, Norvegia e Finlandia. A titolo di paragone, in Italia questo rapporto è di 14,4, mentre negli Stati Uniti arriva addirittura a 18. Eppure, in Europa occidentale non abbiamo visto il popolo dare fuoco ai palazzi presidenziali perché la grande borghesia guadagna decine di volte in più dei propri lavoratori, né vediamo governi che immediatamente prendono misure per soddisfare le richieste del popolo quando questo scende in piazza.

Non possiamo negare l’esistenza di un’oligarchia molto potente in Kazakistan, ma questo non è un motivo sufficiente per giustificare delle proteste di tale portata e distruttività, né il numero di armi e munizioni a disposizione dei manifestanti può essere spiegato in altro modo se non con l’aiuto di potenze e organizzazioni straniere. Quello che sfugge a molti è che, anche all’interno dell’oligarchia kazaka, esistono fazioni diverse, che grossolanamente possiamo dividere tra una fazione filorussa, che ha potere soprattutto nel nord del Paese, ed una filoccidentale, che invece controlla gran parte dell’economia del sud, dove le multinazionali statunitensi e britanniche gestiscono la produzione di petrolio – e questa è certamente una responsabilità del governo.

Soprattutto, la fazione filoccidentale fa capo a Muxtar Äblyazov, imprenditore ed ex ministro dell’Energia, costretto all’esilio per essere caduto in disgrazia, accusato di gravi reati finanziari in patria e in Russia, e divenuto un grande oppositore del governo kazako. “È da quattro anni che con il mio partito preparo il terreno per gli eventi di oggi”, ha dichiarato candidamente Äblyazov nella sua intervista rilasciata a Repubblica. Va notato come, nelle sue dichiarazioni, l’imprenditore “dissidente” utilizzi le classiche parole chiave che i media occidentali applicano ogni volta per giustificare il “regime change” in un Paese: “La situazione dei diritti umani in Kazakistan è un disastro. Non ci sono media liberi. Non c’è libertà di riunione. A causa della corruzione dilagante la situazione economica è un disastro”, dice.

L’obiettivo dichiarato di Äblyazov è quello di rovesciare l’attuale governo e di tornare nel Paese per prendere il potere, seppur – dice lui – attraverso “elezioni libere”. In tal caso, il Kazakistan non solo non tornerebbe ad essere una Repubblica Socialista Sovietica, ma diventerebbe l’ennesimo Paese vassallo degli Stati Uniti, votato al neoliberismo più sfrenato, situato nel cuore dell’Asia proprio tra Russia e Cina, i due nemici principali di Washington, che non a caso hanno espresso la propria preoccupazione per la situazione kazaka. Questo significherebbe anche la distruzione di quegli ultimi barlumi di stato sociale sopravvissuti alla fine dell’URSS, con la diseguaglianza che schizzerebbe davvero alle stelle, e la svendita del Paese alle multinazionali straniere che verrebbe del tutto completata.

Da temere c’è anche il possibile emergere di gruppi estremisti islamici, forse sostenuti dalla Turchia, che potrebbero rappresentare un ulteriore fattore di destabilizzazione in un Paese dove il 72% della popolazione afferma di praticare questa fede. Il coinvolgimento di Ankara sarebbe confermato dall’arresto di Arman Džumageldiev, criminale noto con il nome di “Wild Arman”, recentemente tornato i in patria dalla Turchia. Il Kazakistan, non va dimenticato, confina con la regione cinese dello Xinjiang, dove il governo di Pechino ha dovuto lavorare non poco per tenere a bada i gruppi islamisti, sforzi che potrebbero essere vanificati dalla destabilizzazione del Kazakistan, oltre che da quella già in atto dell’Afghanistan.

Venerdì, il presidente Xi Jinping ha tenuto una conversazione telefonica con il suo omologo Qasym-Jomart Toqaev, sottolineando che “la Cina si oppone fermamente a qualsiasi forza che distrugga la stabilità e la sicurezza del Kazakistan, si oppone a forze esterne che incitano disordini o rivoluzioni colorate o cercano di distruggere l’amicizia e la cooperazione tra Cina e Kazakistan”.

Nel frattempo, lo stesso Toqaev ha affermato che l’ordine costituzionale è stato “per lo più ripristinato” in tutte le regioni del Paese e che le autorità locali hanno il controllo della situazione attuale, come si legge nella nota dell’ufficio stampa presidenziale. Nel suo discorso alla nazione, il presidente ha esplicitamente puntato il dito contro le ingerenze straniere: “Questi cosiddetti media liberi e figure straniere, che sono lontane dagli interessi fondamentali del nostro popolo multinazionale, stanno giocando un ruolo di aiuto e favoreggiamento nelle violazioni della legge e dell’ordine. Si può affermare senza esagerazione che tutti questi demagoghi irresponsabili sono diventati complici nello scatenare la tragedia in Kazakistan”.

Da quanto abbiamo esposto, emerge in modo evidente come quella in atto in Kazakistan non sia affatto una rivoluzione socialista, bensì un tentativo di rivoluzione colorata con caratteristiche molto simili e sostenuta dalle stesse forze che hanno provocato la devastazione dell’Ucraina e che hanno tentato di fare lo stesso, ma senza successo, in Bielorussia.

NOTE

[1] Dati pubblicati dalla Banca Mondiale nel 2020.

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Di Giulio Chinappi - World Politics Blog

Giulio Chinappi è nato a Gaeta il 22 luglio 1989. Dopo aver conseguito la maturità classica, si è laureato presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, nell’indirizzo di Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale, e successivamente in Scienze della Popolazione e dello Sviluppo presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha poi conseguito il diploma di insegnante TEFL presso la University of Toronto. Ha svolto numerose attività con diverse ONG in Europa e nel Mondo, occupandosi soprattutto di minori. Ha pubblicato numerosi articoli su diverse testate del web. Nel 2018 ha pubblicato il suo primo libro, “Educazione e socializzzione dei bambini in Vietnam”, Paese nel quale risiede tuttora. Nel suo blog World Politics Blog si occupa di notizie, informazioni e approfondimenti di politica internazionale e geopolitica.

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