C’è un mito che aleggia sulle nostre vite, dall’ormai lontano marzo 2020: la pandemia, una sciagura biblica che ha luogo nei tempi moderni, colpirebbe trasversalmente e indistintamente tutti. Una piaga che non si fermerebbe davanti a nulla e a nessuno, affliggendo in egual modo ricchi e poveri, uomini e donne, bianchi e neri. A distanza di ormai due anni dall’inizio dell’emergenza, stiamo scoprendo, dati alla mano, che le conseguenze della crisi da Covid sono tutt’altro che simmetriche.
Non è questa la sede per parlare delle possibili differenze negli effetti del virus in termini di letalità, sebbene sia ormai assodato che il Covid abbia conseguenze più gravi nelle fasce meno abbienti della popolazione, spesso maggiormente affette da patologie pregresse e malcurate proprio a causa del disagio economico in cui si trovano. Pur non trascurando la rilevanza di questo aspetto, stiamo qui facendo riferimento alle dimensioni sociali ed economiche della crisi. Abbiamo già visto come durante le fasi più acute dell’emergenza, quelle dei lockdown totali o parziali (per intenderci, da marzo a luglio 2020) i paperoni d’Italia e del mondo hanno visto aumentare sensibilmente la loro ricchezza: in piena emergenza sanitaria, mentre si moriva perché in ospedale mancavano i posti letto e i respiratori, mentre lavoratori e disoccupati faticavano ad arrivare alla fine del mese, qualcuno si arricchiva sensibilmente.
La questione dell’asimmetria degli effetti sociali della pandemia si inserisce a pennello nell’ampio affresco della situazione occupazionale in Italia così profondamente segnata da una disparità tra i sessi. La crisi si è portata appresso un crollo dell’occupazione che, dato il quadro preesistente, ha colpito prevalentemente le donne, tra le quali è maggiormente diffuso il fenomeno del lavoro precario e discontinuo, e anche per questo sottopagato. Per avere un’idea delle dimensioni del problema, dei 444mila occupati in meno registrati in Italia nel primo anno di crisi (il 2020), 312 mila erano donne e 132 mila uomini. In altri termini, il 70% era costituito da donne, i cui contratti in scadenza, spesso e volentieri, non sono stati rinnovati.
Si potrebbe quantomeno sperare che nel 2021, passata la fase più nera dell’emergenza, la timida ‘ripresa’ abbia permesso alle donne di recuperare il terreno perso nell’anno precedente. Un recente rapporto INAPP (Gender Policies Report), tuttavia, spegne sul nascere ogni illusione. Dal report emerge che nel primo semestre del 2021 i nuovi contratti attivati sono stati 3 milioni e trecentomila. Di questi, solo il 39,6% del totale ha riguardato le donne. Ciò significa che l’occupazione femminile, già più penalizzata di quella maschile nella fase di distruzione dei posti di lavoro, è anche cresciuta molto meno nella fase di ripresa. Ma non è tutto: sebbene la gran parte dei nuovi contratti sia a termine (sia per gli uomini che per le donne), l’incidenza del precariato è molto più elevata per le donne che per gli uomini. Citando testualmente il report: “La crescita è chiaramente trainata dai contratti a termine e discontinui sia per uomini che per donne, ma con una differenza. I contratti delle donne, numericamente inferiori a quelli maschili, presentano al loro interno un’incidenza comparativamente maggiore della precarietà contrattuale.”
Questa tendenza testimonia che la crisi ha ulteriormente aumentato le diseguaglianze di genere: basti pensare che l’attuale tasso di occupazione maschile è di circa il 68%, mentre quello femminile non arriva al 50%.
A questa crescente precarietà, a tali evidenti disuguaglianze, si aggiunge un ormai consolidato cambiamento nella struttura dell’occupazione femminile. Tale mutamento si sostanzia in una diminuzione del numero di donne impiegate in settori con paghe più elevate e uno spostamento verso lavori a bassa qualifica. E non si tratta di un fenomeno che riguarda soltanto specifici livelli di istruzione e formazione (per giunta, le donne in Italia sono mediamente più istruite degli uomini), bensì di un processo generalizzato, nel quale le donne guadagnano meno degli uomini e trovano più difficile progredire nella loro carriera. Si tratta, in altri termini, di un supplemento di sfruttamento a cui le donne sono sottoposte per il solo fatto di essere donne, elemento che ad oggi è purtroppo ancora sufficiente a renderle più ricattabili dal punto di vista del salario e delle condizioni di lavoro.
La brutalità con cui la crisi ha colpito e sta continuando a colpire il lavoro, ed in particolare quello femminile, deve anche farci riflettere sull’insufficienza delle politiche messe in campo in questi anni dai Governi, non in ultimo l’attuale esecutivo Draghi, che di fronte alle crescenti disuguaglianze sta continuando a portare avanti interventi classisti come lo sblocco dei licenziamenti, la riforma delle pensioni, il taglio del Reddito di cittadinanza, le privatizzazioni spacciate per misure volte a rafforzare la concorrenza, le limitazioni dei congedi parentali e una riforma del fisco che principalmente avvantaggia i percettori di reddito medi e medio-alti, mentre nulla si muove sul fronte del contrasto al carovita. In questa fase di riflusso del ruolo dello Stato nel sostegno ai lavoratori, dopo la breve e ben misera parentesi della pandemia, a essere particolarmente colpite sono proprio le donne. Lo smantellamento in corso del welfare, a partire dalle misure di conciliazione tra vita privata e lavoro, finisce per pesare in maniera preponderante proprio sulle donne, spesso le più attive nei compiti di cura familiare e, per questo, messe ai margini del mondo del lavoro.
La battaglia per il lavoro dignitoso delle donne, la nostra battaglia, è una parte della battaglia per il lavoro dignitoso di tutte e tutti. La dinamica del sistema capitalistico si fonda sulla ricerca di sempre nuove frontiere per intensificare la messa a profitto dello sfruttamento della stragrande maggioranza della popolazione. In questo meccanismo infernale, serve sempre un nuovo soggetto da sfruttare almeno un po’ di più, che sia il migrante, la donna, il disoccupato. Solo mettendo in discussione l’intero impianto che regola e disciplina le nostre vite, a partire da precarietà e riduzione dello stato sociale, potremo pensare di risolvere il problema di tutti gli sfruttamenti e di tutte le disuguaglianze.