La crisi della democrazia repubblicana, aumentata nella sua portata dall’incedere risoluto di Mario Draghi sulla via di Palazzo Chigi prima e del Quirinale poi, probabilmente sarebbe attutita da una presenza politica, organizzata e strutturata – tanto nel palazzo quanto nella società – di una sinistra di alternativa degna veramente di questo nome.
Che cosa si intende, dunque, per “alternativa“? E’ giusto domandarselo se si vuole, quanto meno, dare dei tratti distintivi ad un progressismo di nuova generazione, che si apra al secolo in questione e a sfide indubbiamente all’altezza di un anticapitalismo rinnovato e adeguato ai tempi.
La risposta potrebbe essere irrorata da una buona dose di soggettivismo, di interpretazione molto personale di quanto accade e rischiare così, visto il mancato dibattito in merito in questi due anni pandemici, di rimanere lettera morta: semplici vagheggiamenti, ed anche vaneggiamenti… per molti versi, al massimo riconducibili a tante sintesi di programmi che i troppi partiti comunisti ed antiliberisti presenti in Italia formulano per autocompiacersi di esistere tutt’ora.
Ma niente di più si potrà trovare nei residui, anche un po’ stantii, di forze politiche che da troppo tempo sono al più definibili come “debolezze” di una sinistra priva di slancio costruttivo, quasi completamente autoreferenziale, capace solamente di assistere al proprio stanco declino negandolo ogni giorno, affermando che – tutto sommato – un po’ di organizzazione esiste ancora e che si può rilanciarla.
Proprio in occasione del centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, lo scorso anno, sarebbe davvero stato utile aprire un cantiere interpartitico, per discutere di una costituente neoprogressista, neocomunista e innovativamente anticapitalista quindi.
Una sinistra di alternativa che voglia essere tale deve mettere al primo punto la modernità della lotta tra mondo delle imprese e mondo del lavoro, sapendo che la lotta di classe ha bisogno di una reinterpretazione che non sia un mero esercizio retorico pregiudizialmente anti-istituzionalista, ma che, al contrario, riconsideri il dualismo necessario tra impegno sociale e impegno politico nella rappresentanza dei bisogni dei moderni proletari.
Le tante monadi della sinistra extraparlamentare, per scelta o per coazione, hanno preferito parlarsi addosso, mantenere il punto sulle proprie tracce culturali e ideal-ideologiche, e sprecare così la preziosità di un tempo rivoluzionario come quello rappresentato dal biennio pandemico.
Poteva essere l’occasione per guardare ad un percorso nuovo senza intaccare le ataviche paure e le nevrosi da elaborazione di un lutto che nei fatti c’è già ma che si preferisce non affrontare.
Rifondazione Comunista per prima ha da anni esaurito la sua potenzialità che le ha permesso di essere protagonista di grandi lotte sociali, civili, dell’operaismo di nuova leva: dalla rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario fino alle tremendamente straordinarie giornate del G8 genovese.
La storia del Partito che ereditò la presenza organizzata dei comunisti in Italia dopo lo scioglimento del PCI se non si è conclusa formalmente è solo per una ostinazione disperata, per una mancanza di coraggio che, prima di tutto, è miopia politica.
Una miopia in parte voluta, perché gioca a favore di questa consunzione indecorosa, che Rifondazione non merita di certo nel trentennale dalla sua nascita. Un’incapacità di partire da un punto di osservazione meno ristretto, che vada oltre il Partito che abbiamo conosciuto e che molti di noi non riescono proprio più a riconoscere in quanto tale.
E’ pur vero che la povertà dell’offerta politica nell’area appena descritta della sinistra di alternativa è tale da spingere al rintanamento nei propri angusti perimetri resistenti a cambiamenti epocali. Non c’è nulla là fuori che incentivi ad un impegno rinnovato, ad un recupero empatico di una passione politica che unisca una larga parte del popolo attorno ad un nuovo progetto politico che leghi l’analisi ereditata dal passato con l’indagine necessaria nel presente-futuro che viviamo e che ci aspetta.
Ma rimanere nei nostri recinti a scrivere pagine e pagine di tesi congressuali, beandoci addirittura di inventare nuovi linguaggi per definire la sessualità, i generi e le interazioni personali dentro un capitalismo che divora i diritti più elementari attraverso l’affermazione dell’asse tra neoliberismo e neoconservatorismo (sovranista), non ci aiuterà ad elaborare i lutti che ci pervadono.
Il lutto della sconfitta storica della sinistra in Italia, almeno dopo il 1989; quello della sconfitta istituzionale di una sinistra comunista che è rimasta imbrigliata in rapporti di forza troppo grandi per lei, dovendosi piegare a compromissioni che hanno preso il posto di onorevoli compromessi in favore del mondo degli sfruttati. E altri lutti, in particolare di natura ideologica.
Un retaggio di feticismi, necessari ad alcune compagni ed alcuni compagni per non sentirsi avulsi tanto dalla realtà quanto da ciò cui avevano creduto in passato, compare qua e là e innerva ancora le tesi di piccoli partitini anticapitalisti dai tratti nazionalisti, filostalinisti storicamente parlando e filoputiniani in un oggi in cui si trovano fianco a fianco dei sovranisti peggiori, di filosofi ed esegeti del marxismo portatori di un dogmatismo indegno della proposta dialettica del materialismo storico e scientifico.
Bisognerebbe ripartire, se non proprio da una considerazione di una costituente di lungo corso, quanto meno dall’impostazione di un comune cammino culturale e sociale.
Non esiste, se non ne “il manifesto“, che non ha e non può più avere questo ruolo, un giornale, una rivista sia cartacea sia online attorno a cui confrontarsi. Per questo non c’è un dibattito aperto sulle tante questioni del nostro tempo: imperversano piccole discussioni di bottega, piccoli confronti tutti interni e che si rivolgono soltanto ai propri iscritti o simpatizzanti. Non ad un popolo, non ad una classe sociale.
Qui si tratta di valorizzare quel che rimane per evitare che sia disperso ulteriormente e condannato alla rassegnazione più completa. Non ci possiamo davvero permettere che una storia come quella di Rifondazione Comunista si adagi sulle rive dell’attendismo e non riesca a fare altro, ogni giorno, se non creare lotte disomogenee, affidate alla volontà presente nei territori e senza un coordinamento continuativo da parte del Nazionale.
Osservate la partita del Quirinale, in questi giorni. Oppure quella che riguarda l’enorme mole di investimenti previsti per le imprese col PNRR.
Realmente, cosa siamo in grado di fare per contrastare l’offensiva di classe che il padronato italiano sta mettendo in campo grazie alla benedizione europea al sostegno del draghismo? E’ mai possibile che questa mole di interventi antisociali non ci faccia fare un salto sulla sedia e non ci faccia abbondare gli orgogli dello stare nei nostri miseri caravanserragli per aprire una stagione di rivendicazioni che sia propedeutica ad una altrettanto necessaria stagione di lotte?
Come si può dare inizio a questo processo costituente e ri-costituente? Non è semplice rispondere, ma di sicuro restare abbarbicati alle nostre pericolanti strutture politiche, esaltando le capacità critiche che abbiamo senza però metterle in pratica, è mortificare i grandi ideali di uguaglianza per cui ci siamo battuti per decenni, per cui abbiamo sacrificato le nostre vite e per cui, se davvero ci crediamo ancora, dovremmo essere pronti a spenderci.
Per una nuova critica anticapitalista, libertaria e antispecista, per un nuovo orizzonte civile e sociale del progresso umano.
MARCO SFERINI