di Marco Sferini

La progressiva uscita dal clima emergenziale di questi ultimi due anni pare proprio intersecarsi con una inversione di proporzionalità per quanto concerne la vita politica ed istituzionale del Paese. Mentre si vedono timide luci di speranza alla fine di un lunghissimo tunnel, nell’attesa di potersi togliere le mascherine all’aperto dall’11 febbraio, la seconda rata di investimenti data dal PNRR cala su una Italia che ha appena rieletto Sergio Mattarella al Quirinale ma le cui forze politiche (soprattutto di maggioranza) escono con le ossa completamente rotte dalla prova del Colle.

Sono state utilizzate tante locuzioni per definire questa crisi orizzontale dei partiti e dei movimenti nella società, senza che si trovasse veramente una soluzione al dilemma del rinvigorimento democratico, del ritrovamento di una larga partecipazione alla vita civile e civica di una comunità nazionale atomizzata, divisa dalle rigidità normative anti-pandemia che si sono andate a sommare alle endemiche e strutturali differenze di classe.

Povertà economica e povertà morale si sono saldate e stanno creando tutt’ora guasti incalcolabili, nonostante il PIL sia balzato a +6,5&% facendo indubbiamente esultare per primo proprio Mario Draghi che può, dopo l’ostracismo parlamentare (ma in particolar modo partitico) subìto in merito alle sue aspirazioni quirinalizie.

La consunzione della democrazia politica, per qualche istante, ha coinciso con una marginalizzazione costante del Parlamento, subordinato all’azione di governo e, nello specifico, di un governo liberista che persegue come indirizzo direttivo la tutela dei privilegi imprenditoriali, unica variabile (in)dipendente per valutare lo stato di salute del Paese alla vigilia della revisione del Patto di stabilità europeo.

Non è un caso che, alla fine di una settimana litigiosissima e piena di colpi di scena, i partiti della maggioranza draghiana abbiano optato per il mantenimento dello status quo, per la conservazione, per l’intangibilità del dualismo venutosi a creare tra la Presidenza della Repubblica e il Governo: la sola certezza richiesta dai mercati che sanno quando muoversi per condizionare la vita politica di un Paese, la libertà di scelta delle sue istituzioni che, proprio in questi frangenti, vedono il margine democratico ridursi e comprimersi al massimo.

Tutti i tentativi fatti per trovare un sostituto di Mattarella che fosse quasi uguale al Presidente uscente, altro non sono stati se non l’affannosa ricerca di un compromesso tra le pulsioni elettoralistiche delle singole forze politiche e  il mantenimento di un equilibrio istituzionale-economico che contentasse i padroni di casa nostra e gli elargitori dei prestiti europei.

Televisivamente parlando, poi, la corsa al Colle è apparsa come un mero scontro di potere riconducibile assolutamente alle diatribe interne, alle correnti cristallizzate dei singoli partiti; non c’è dubbio che questo elemento sovrastrutturale abbia avuto il suo peso ma, se questo peso davvero era tale, lo era principalmente per le ricadute che avrebbe potuto determinare nella conferma o meno delle aspettative dell’Unione europea e dei singoli governi degli altri Stati. Primo fra tutti la Francia di Emmanuel Macron.

Fino a giugno la presidenza della UE toccherà, infatti, a Parigi e, parimenti, le elezioni presidenziali si avvicinano: avendo già perso Angela Merkel come interlocutore primario per consolidare le posizioni riguardanti la riforma del Patto di stabilità, sarebbe stato un guaio per il Presidente francese se anche Mario Draghi fosse stato trasferito al Quirinale e si fosse, nella peggiore delle ipotesi, aperta una crisi di governo in una Italia politicamente allo sbando.

Collocata nel suo ormai naturale habitat economico e finanziario continentale, la crisi della politica italiana assume tinteggiature molto diverse da quelle sgargianti giallo, rosse e verdi che si sono alternate nell’insolito caleidoscopio di colori che ha accecato o adombrato il Parlamento ogni volta che ad una proposta nominale ne seguiva, a strettissimo giro di posta, subitissimo un’altra.

Il grigiore dell’italico foro moderno, dove si incontrano e si scontrano gli oratori più diversi, sembra somigliare molto di più ad una diatriba di tante mediocrità che si sommano, si dividono, si moltiplicano e, perché no, si sottraggono pure, non tanto fra loro, bensì ai loro doveri: primo fra tutti quello di creare una empatia con la popolazione che, non c’è da biasimarla, si è sentita molto lontana dalla lotta di piccolo potere che si è giocata nella settimana appena trascorsa.

Le pressioni liberiste inducono un largo arco parlamentare a considerare il presidenzialismo come soluzione prima alle lungaggini burocratiche, mostrate alla popolazione come il vero problema per cui i sostegni, gli aiuti e i finanziamenti non arrivano da Roma fino agli enti locali comunali. Il semplificazionismo rischia di prevalere sull’attenta considerazione delle particolarità del caso italiano, partendo dalla formazione unitaria dello Stato fino alla fondazione della Repubblica.

Sovranisti neonazi-onalisti iniziano a preconizzare un baratto tra ripristino proporzionale del consenso elettorale in Parlamento e, a questo punto, una conversione presidenzialista che ridurrebbe indubbiamente il potere delle Camere dimezzate nel loro numero dal referendum pentastellato dello scorso anno. Il pericolo non è uno soltanto: comunque la si possa descrivere ed osservare, la democrazia repubblicana è sotto attacco e messa in discussione proprio da chi l’ha defraudata in questi anni delle sue specificità, ad iniziare dal ruolo centrale del Parlamento nella vita del Paese.

La cosiddetta “classe dirigente” italiana è, tranne pochissimi e, peraltro, antisociali e negativissimi casi, in piena sintonia con le ragioni del mercato e non mette minimamente in conto una nuova stagione di riforme che necessiterebbero per attutire i colpi di coda della pandemia e di una crisi economica sempre meno avvertita dal grande capitale e della grandi centrali finanziarie, mentre si riversano i costi sulla grande, diffusa precarietà che va dal lavoro parcellizzato ad un sistema pensionistico in grande affanno.

Per non parlare del mondo della scuola, di quello di una sanità allo stremo delle forze e dei tantissimi coni d’ombra dove non arriva nessun aiuto da parte della Repubblica, quindi dall’insieme complesso di istituzioni che si regolano autonomamente, richiedendo sempre maggiori disponibilità di gestione di fondi tanto locali quanto nazionali (ed europei), sbandierando il tutto come se fossimo davanti ad una vera riforma federalista di uno Stato che finirebbe col disgregare definitivamente le residue tutele sociali.

Criticare la crisi della politica italiana soltanto dal punto di vista della politica politicanteggiata, significa evitare con accuratezza di affrontare il vero problema dell’Italia di oggi: la povertà crescente, il disagio sociale che aumenta e che non soltanto un disagio di natura economica, ma anche psicologica. Gli strascichi del Covid-19 si faranno sentire ancora a lungo: nei corpi e nelle menti di milioni di italiani che lo hanno avuto e anche in coloro che lo hanno scampato ma si sono ritrovati, come tutte e tutti, completamente avviluppati dalle restrizioni, dalla claustrofobia del biennio infettivo e virologico.

Che si torni a parlare di una legge elettorale proporzionale e che, magari, questo farne cenno si concretizzi in qualche seria proposta rimessa alla discussione parlamentare, è un passo importante per ristabilire quanto meno la regola costituzionale del diritto di partecipazione uguale per tutti alle competizioni elettorali. Una proporzionale pura, senza i trucchetti degli sbarramenti e di partizioni uninominali, potrebbe costringere le forze politiche ad un confronto più serrato, persino più ideologico.

Spiacerebbe a tanti soloni e teorici dell’alternanza tra schieramenti che in Italia non hanno mai somigliato ai sistemi anglosassoni cui venivano paragonati con tanta altezzosità e altrettanta saccenteria.

Il legittimo dubbio che tutto questo si venga proponendo in virtù di una ritrovata coscienza democratica, è qualcosa di più di una mera supposizione. E’ doveroso averlo. Non per capricciosa malafede, ma perché da chi ha fatto in sette giorni una cinquantina di nomi per la Presidenza della Repubblica, per accondiscendere alla volontà dei mercati, ci si può attendere un sussulto di costituzionale coscienza, di giacobinissima integerrima dedizione nei confronti del Paese?

Alle prossime settimane la molto poco ardua sentenza.

MARCO SFERINI

foto: screenshot

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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