I discorsi dei Presidenti della Repubblica appena eletti non sono tutti uguali, ma si somigliano molto. Cambiano i contenuti, mentre la forma deve essere sempre permeata da una aulicità degna dell’occasione: quel del programma meraviglioso, del libro dei sogni che, per poche decine di minuti, riesce a riaffratellare gli italiani con le istituzioni e a considerarle più umane del solito, meno rivolte agli interessi privati e tornate a considerare i beni comuni e il lato pubblico della vita del Paese come l’asse portante dell’Italia stessa.
L’Italia restituita a sé stessa, almeno nelle intenzioni e in quelli che i cronisti definiscono “suggerimenti” dati dal Capo dello Stato agli altri poteri del medesimo. Il Mattarella bis non fa eccezione a questa impostazione protocollore non prevista e non scritta, ma praticata necessariamente da chiunque assurga al Colle più alto della Repubblica.
Rimette al centro il ruolo e l’azione del Parlamento e sferza il governo sulla riforma della giustizia. Incalza sui problemi sociali, ricorda la centralità della persona umana nell’affermazione dei diritti costituzionali. Sovrappone bisogni e programmazione economica, disegnando una specie di strettissimo viatico che riconduca la politica italiana a considerare nuovi spazi per uno stato-sociale innovato, restaurato. Il che contraddice quello che il governo Draghi (voluto da Mattarella…) si appresta a fare con i fondi europei. Le Camere, riunite ancora una volta in seduta comune, applaudono quasi senza sosta.
Cinquantaquattro applausi, in larga misura di prammatica ed ascrivibili alla voce “ipocrisia” dell’agenda politica italiana, perché, appena il Presidente volta lo sguardo e si dirige al Quirinale, partiti, movimenti e governo sono nuovamente pronti a rintuzzarsi oltre la dialettica normale di un confronto tutto politico, perché, al di là delle belle parole e delle splendide intenzioni, nel volere tutti il massimo sviluppo economico, il più straordinario bene al Paese, la declinazione di queste aspirazioni e speranze si traduce nella conservazione di mediocri interessi di parte.
Molti decenni fa, quando si parlava di “interessi di parte“, si declinava la locuzione in due dignitosissime definizioni: l’interesse politico di una parte politica, che corrispondeva alla lotta per le idee in cui si credeva, legandole ai bisogni dei cittadini differentemente interpretati a seconda della tanto oggi vituperata “ideologia“; oppure si appellava in questo modo proprio l’interesse di una parte sociale del Paese, un interesse di classe: quella borghese, se a trattare, ad esempio, del diritto al lavoro erano liberali e democristiani, e quella proletaria se il tutto veniva visto dal punto di vista socialista e comunista.
Il discorso di Mattarella, riportato temporalmente al periodo della malamente detta “prima repubblica“, avrebbe avuto un significato molto diverso: si sarebbe caricato di una potente spinta propulsiva dai contorni quasi di programma politico per molte delle forze parlamentari dell’epoca. Il richiamo morale sarebbe, inoltre, risuonato come un imperativo categorico kantiano e non come un semplice riepilogo delle cose ancora non fatte dalla classe dirigente di questo Paese.
Quella classe dirigente che non è stata in grado, lungo tutta una settimana, di trovare un equilibristico accordo per far stare sullo stesso asse problematiche politiche interpartitiche ed esigenze concretamente socio-economiche di decine di milioni di italiani.
Per questo gli applausi sperticati a Sergio Mattarella sono il lastrico delle buone intenzioni per altre vie infernali: perché il governo è già al lavoro per impiegare la seconda rata del PNRR in modo tale da favorire sempre e soltanto i soliti noti. Quegli imprenditori che lamentano una crisi della domanda un po’ da sempre, Covid o non Covid, perché sta nelle “rivendicazioni di classe” esigere la tutela dei profitti nel nome della sempre utile da sbandierare “stabilità del Paese“. L’interesse sociale dovrebbe coincidere con quello privato.
Sarebbe così facile smascherare queste antiscientifiche (in quanto antieconomiche) asserzioni confindustriali e padronali in generale: ma la stragrande maggioranza delle forze politiche prima applaude la richiesta di una sorta di ritorno allo stato-sociale fatta dal Capo dello Stato, ritrovabile in decine di puntualizzazioni del suo discorso, e poi persevera in ciò che realmente crede: nel migliore dei casi la tenue correzione degli eccessi liberisti e, nel peggiore dei casi invece, la protezione dei privilegi di classe, la assoluta predominanza del dogma del mercato su tutti gli altri interessi che si possono affacciare sulla scena.
Il discorso sulle responsabilità del Presidente della Repubblica, a questo proposito, è viziato da pregiudiziali costituzionali: ha molti poteri, potrebbe tentare di far valere il manifesto delle meraviglie che ha esposto al Parlamento magari rinviando qualche volta di più alle Camere certe leggi che ledono diritti per l’appunto sociali, a volte anche umani, ma non lo fa per non ledere l’autonomia dei singoli poteri dello Stato.
Per questo riesce molto difficile poter attribuire all’inquilino del Quirinale una serie di rimproveri per la mancata traduzione concreta dei cahiers de doléances, perché non è nemmeno lui in persona ad attribuirsi alibi che lo possano in qualche modo giustificare per aver mancato nel suo dovere. Ad essere obiettivi, Mattarella ha, in fondo, ricordato tutto quello che non va in questa società e ha toccato una serie di temi e di corde sensibili che dovrebbero essere veramente nell’agenda politica di ogni forza davvero democratica, soprattutto se si picca di dirsi “di sinistra” o di appartenere al “fronte progressista“.
Questo progressismo italiano del secolo nuovo somiglia molto di più ad un blando conservatorismo, ad una voglia di compromesso che non disdegna affatto di lordarsi le mani senza la benché minima preoccupazione che gli altri vedano quante contraddizioni esistano tra il predicare bene e il razzolare male.
La sfacciataggine del liberismo è tale che, più queste contraddizioni sono evidenti, più il sostegno dei mercati va a forze politiche che stanno sul crinale dell’ambiguità, carezzando ora gli interessi imprenditoriali e ora quelli della grande massa del lavoro precario, del disagio sociale, dell’incertezza di vita, della sopravvivenza minuto per minuto di sempre più vasti margini di periferie della popolazione che a fatica mettono insieme il pranzo con la cena.
Le nuove povertà sono rientrate nel discorso del Presidente Mattarella: quelle autoctone e quelle che si affacciano sulle nostre coste e provengono da teatri di guerra e disperazione molto più devastanti di quelli che pensiamo di vivere noi attraverso le nostre miserie giornaliere. Ma Salvini era assente. Ha preso il Covid e quindi avrà ascoltato il discorso del rieletto Capo dello Stato da lontano. Così potrà sempre dire che non ha sentito bene e che, nessun osi negarlo, lui è il primo a non volere che la gente muoia in mare…
MARCO SFERINI