E’ stata del vento la colpa, altrimenti nessuno si sarebbe accorto che Marinella, una pensionata di 70 anni, era morta da sola nella sua casa alla periferia di Como da più di due anni. L’hanno trovata i Vigili del fuoco, chiamati dai vicini perché gli alberi del giardino erano ormai una minaccia per le abitazioni, sferzati, piegati pericolosamente proprio verso i balconi e le finestre delle case.
Altrimenti, se quel vento del ricordo non fosse soffiato così forte, il cadavere mummificato di Marinella sarebbe rimasto ancora lì per chissà quanto. Nessuno ne ha colpa, almeno direttamente. Fa parte della grande complessità della vita moderna, della velocità con cui ci muoviamo e siamo costretti a muoverci. Tralasciamo ciò che ci sta intorno per correre verso orizzonti quotidiani che, alla fine, nemmeno raggiungiamo.
Si dissolvono così nel tempo i sentimenti, le piccole cose di ottimo e anche di pessimo gusto. Abbiamo smesso di apprezzare il bello e ci fermiamo solo davanti all’evidenza banale della superficialità di qualunque cosa: è la peggiore attitudine che potessimo sviluppare nella fase liberista di questo capitalismo. Stare sempre e soltanto alla superficie, senza approfondire pensieri, concetti, situazioni, emozioni, relazioni sociali.
L’individualismo egoistico del mercato ci ha reso atomi che, a differenza di quelli che immaginava Democrito, non si scontrano nemmeno più per dare vita ad una sorta di verità, quindi di conoscenza particolareggiata e sensibile tanto dei fatti quanto di coloro che a volte li fanno, loro malgrado, come nel caso di Marinella, accadere.
La solitudine è uno stato trasversale dell’età, perché riguarda il campo emozionale che ci compenetra più profondamente e, infatti, si opera una differenza a monte tra la scelta di stare soli e l’essere soli. La volontà e la coazione antisociale qui si fronteggiano in campo aperto. Ma non c’è, oltre modo, dubbio che la vecchiaia diventa, spesso e purtroppo volentieri, una aggravante se si è costretti ad una vita priva di affetti familiari, priva di amicizie o di relazioni giornaliere anche soltanto con qualche vicino di casa.
Ogni esperienza di vita che facciamo è, malgrado tutto, attraversata da fattori positivi e negativi al tempo stesso: ha, come si suol dire, diverse sfaccettature. L’amore, l’amicizia, l’affetto per i nostri simili animali non umani, il desiderio per il possesso di qualcosa, l’attraversare esperienze nuove ci fa scoprire che avremmo potuto affrontarle in un modo piuttosto che in un altro.
L’ambivalenza della vita è un fatto conclamatamente oggettivo. Eppure ce ne stupiamo di continuo. Forse perché abbiamo un’esistenza soltanto (a quanto ci è dato sapere empiricamente parlando) e dobbiamo barcamenarci tra l’acquisizione dell’esperienza e il godimento della medesima in questo o in quell’altro campo del nostro cammino individuale e sociale.
Così, la solitudine di una vita e di una morte completamente dimenticate, finiscono un po’ cinicamente per destare sorpresa per qualche attimo, occupando alcune colonne delle cronache dei quotidiani e, già da domani, la storia di Marinella rimarrà nelle coscienze di pochissime persone: forse di quei suoi vicini che non si sono accorti della sua dipartita e a cui non si può dare una colpa più grande di quella che dovremmo dare a ciascuno di noi, soprattutto preventivamente, visto che siamo tutti immersi fino ed oltre il collo nell’alienazione totalizzante del mondo cosiddetto “moderno“.
Eppure, se altre cronache, altre notizie aumenteranno lo spessore dell’oblio sulla cronaca nera della morte di Marinella, se è destino cerebrale (prima ancora che etico e morale) che certi ricordi debbano lasciare il passo e lo spazio ad altri sempre più freschi, almeno si può provare ad imparare ora, a mente ancora fresca, qualcosa dalla tragica scoperta fatta dai Vigili del Fuoco accorsi per sistemare alcuni alberi cadenti.
Si può considerare quella di Marinella come la morte che potrebbe toccare a noi stessi, ma già stando ancora vivacemente in vita (se si hanno le energie per provare a resistere ai tanti contraccolpi di questa vita): la solitudine non è, infatti, una condizione del morto, che non ha più alcuna contezza di niente e nessuno.
E’ una specificità dei vivi e, per questo, andrebbe limitata nel maggior numero di casi possibili. Per lo meno in quelle circostanze che costringono una persona, giovane o anziana che sia, ad estraniarsi dal contesto sociale anche volontariamente, oppure a rifugiarsi nel proprio cerchio descritto da una incomunicabilità manifesta col resto del mondo. La solitudine, sovente, è la figlia primogenita dell’emarginazione, della trascuratezza dei rapporti interpersonali, che possono dipendere tanto da chi questi comportamenti li subisce quanto, e forse in misura maggiore, da chi – pure inconsapevolmente – li mette in pratica.
L’immiserimento progressivo delle relazioni sociali è anche una conseguenza della mancata solidarietà di classe che, a sua volta, si riflette su tanti altri aspetti della nostra vita: primo fra tutti quello del lavoro e del rapporto tra lavoratore e lavoratore.
La divisione individualistica è classista, tuttavia. Non è un prodotto del singolo che si estende per chissà quale osmosi collettiva. Emulazione ed influenza reciproca giocano la loro parte, ma la sofferenza interiore finisce con l’essere un dramma della solitudine a tutto tondo se la persona che ne è attraversata finisce con il non potersi esprimere, con il non poter trovare una persona e un luogo fisico in cui trovarsi a suo agio e socializzare il disagio.
Tutte queste considerazioni derivano solo sofisticamente dal dramma vissuto da Marinella. Ma ci dimostrano che qualunque evento, qualunque situazione ci si presenti innanzi, può stimolarci a riflettere, ad andare oltre le apparenze e le convenzioni, oltre quella banale superficialità che, nel caso di una donna dimenticata per oltre due anni nella cucina di casa sua, pretenderebbe di farne soltanto un caso di cronaca nera.
Non è così e non deve essere così. Sarà anche lecito scordarsi di Marinella, ma mentre qualcosa suscita un po’ di indignazione, di stupore e anche di orrore per il venir meno di quella che definiamo “la comunità” in cui viviamo, bisogna approfittarne per far rivivere in noi quella critica sociale che è anzitutto condanna dell’autoreferenzialità e del ripiegamento pernicioso su noi stessi.
Non riusciamo a cambiare questa società perché ne facciamo parte soltanto a tratti e non sempre. La viviamo utilitaristicamente, appropriandocene quando ci è utile e lasciandocela dietro le spalle quando non ci serve più. Così facendo saranno ancora tante le Marinella che vivranno e moriranno in piena solitudine: senza il ricordo di un amore, senza nemmeno poter mostrare a qualcuno l’umanità, tutta l’umanità del proprio dolore.
Morire soli e morire da soli sono due morti molto, molto diverse… Tutti dobbiamo affrontare quel momento da soli, a tu per tu con la fine. Ma non avere nessuno intorno è forse peggio dell’accorgersi di doversene andare per sempre. Addio a Marinella e a quanti, come lei, oggi non ci saranno più e nessuno si accorgerà che sono passati di qui per settant’anni e più della loro e della nostra vita.