La scuola italiana non sta bene. Gli studenti e le studentesse che la abitano nemmeno. Come affermato in tanti articoli e dibattiti, questi anni di pandemia (siamo al terzo anno scolastico gravato dalla gestione pandemica ‒ pensate quanto tempo rappresenti per un ragazzino di 9, 12 o 15 anni) hanno esasperato tutti i problemi che la scuola aveva già prima: la progressiva mancanza di risorse, il precariato del personale, le classi “pollaio” e l’inadeguatezza degli edifici che le ospitano, la scuola “azienda”, i dirigenti scolastici addetti al project management, la distanza dagli studenti e dai loro bisogni, la scarsa attenzione al benessere psicologico, l’alternanza scuola lavoro che oggi ha cambiato nome ma, come spesso accade, non ha cambiato sostanza e che, nella maggior parte dei casi, non è formazione ma addestramento, sottraendo tempo allo studio e alla partecipazione alla vita della scuola, impoverendo l’offerta formativa e costruendo una prospettiva di lavoro precario.
Il 21 gennaio, Lorenzo Parelli, 18 anni, è morto schiacciato da una trave d’acciaio mentre lavorava gratis presso l’azienda di costruzioni meccaniche Burimec di Lauzacco, in provincia di Udine, e poco importa se si trattasse di uno stage, di un tirocinio o di un PCTO (Percorso per le competenze trasversali e l’orientamento). Lorenzo è morto di sfruttamento e il suo nome si aggiunge alla lunga lista di persone che ogni anno perdono la vita sul posto di lavoro. In Italia, nel 2021 (nonostante il rallentamento delle attività produttive attribuito alla crisi pandemica) ogni giorno sono morte sul lavoro tra le 3,2 (dati Inail) e le 3,8 persone, secondo l’Osservatorio Nazionale Morti sul Lavoro fondato da Carlo Soricelli (dove vengono conteggiati anche i decessi dei lavoratori “in nero”, di norma non inseriti nei dati ufficiali). Studenti e studentesse vengono inseriti in quegli stessi contesti lavorativi: perciò non possiamo definire la morte di Lorenzo “una fatalità imprevedibile”.
È proprio l’ingiustificabile morte di Lorenzo che fa da scintilla alla necessaria ondata di proteste, occupazioni e manifestazioni che sta scuotendo la scuola italiana. Venerdì 28 gennaio studenti e studentesse sono scesi in piazza gridando che «non si può morire di scuola» e per dire, con le parole di un comunicato del collettivo studentesco del liceo Gioberti di Torino, che «la scuola deve essere un luogo di crescita e relazione, non una palestra di sfruttamento, precarietà e morte». La risposta delle istituzioni è stata, ancora una volta e per ogni forma di dissenso, repressione. Violenta, in alcune piazze più che altrove; a Torino, invocando le norme anti-contagio della “zona arancione”, le forze dell’ordine hanno circondato la piazza e caricato a più riprese ragazzi e ragazze assolutamente pacifici. I video e i commenti postati sulle pagine dei collettivi studenteschi non lasciano dubbi: teste spaccate, sangue, un ragazzo preso per il collo, una ragazza che finisce in ospedale con l’anca fratturata. In molti hanno sentito le forze dell’ordine deridere e insultare i manifestanti. Il questore dichiarerà che gli agenti «hanno agito per proteggersi», ma video e testimonianze lo smentiscono, come smentiscono la dichiarazione della ministra dell’Interno Lamorgese che parla di «manifestazioni infiltrate»: un «tentativo di dividere l’agitazione studentesca, di dividerci tra buoni e cattivi e bloccare sul nascere la mobilitazione», dicono i ragazzi e le ragazze del liceo D’Azeglio, che in quella piazza erano presenti e conoscono chi è finito in ospedale e chi ha testimoniato.
Pochi giorni dopo, in risposta alla repressione subita, gli studenti e le studentesse del Gioberti di Torino decidono di occupare la loro sede di via Sant’Ottavio «per rivendicare la possibilità di creare un futuro e una scuola migliori», organizzano laboratori su disobbedienza civile e abuso di potere, cineforum, assemblee. Il coordinamento studentesco indice un nuovo sciopero per venerdì 4 febbraio: 100.000 studenti e studentesse in tutta Italia e più di 3.000 solo a Torino, si riprendono il corteo negato una settimana prima per «dimostrare che gli studenti ci sono» – come scrive il coordinamento LaSt (Laboratorio Studentesco) –, per chiedere la fine dei PCTO, ma anche per ricordare al ministro Bianchi, che reintroduce la seconda prova scritta alla maturità in nome di “un ritorno alla normalità” che non esiste, che in due anni di incertezza e di DAD e DDI, classi per metà in DAD e per metà in aula, non c’è stato nulla di normale.
La settimana successiva le occupazioni si moltiplicano. Solo a Torino contiamo Alfieri, Cattaneo, Primo Levi, D’Azeglio, Cottini, Passoni, Bodoni, Maxwell, Convitto Umberto I, Einstein, Monti, Majorana, Primo, Pininfarina, Galileo Ferraris, Spinelli, Buniva, Darwin, Romero, Regina Margherita, Giulio, Steiner, Ferrari, Cavour, Bruno, Volta, Boselli, Porporato, Curie Vittorini e altre ancora. In alcune scuole nessuno ricorda quando è stata l’ultima occupazione, tante non hanno nemmeno un collettivo e lo fondano (il Cattaneo lo intitola a Lorenzo Parelli), aprono pagine Instagram e coordinamenti, fioriscono laboratori e assemblee: si dibatte di sicurezza a scuola e sul lavoro, di riappropriazione degli spazi fisici e sociali (mio figlio, arrivato al liceo in piena pandemia, dice che non aveva mai fatto tante amicizie come in questi giorni), di crisi climatica e greenwashing, di orientamento universitario (spesso trascurato e approssimativo così come i percorsi di educazione civica), di questioni di genere e educazione sessuale; si gioca a calcio e si preparano i cartelli per la prossima manifestazione. Studenti e studentesse dell’Alfieri riesumano lo “Statuto degli studenti” adottato con un Decreto del Presidente della Repubblica il 24 giugno 1998 (e subito dimenticato immagino), individuando proprio nel mancato rispetto dei diritti degli studenti in esso contenuti, volti a creare e tutelare un ambiente scolastico inclusivo e partecipato, la ragione del loro malessere a scuola. Si parla di presa di coscienza del corpo studentesco, di collettività e coesione: «la scuola siamo noi, non esiste senza gli studenti», dice semplicemente una studentessa dello Spinelli. La scuola è un elemento centrale della democrazia e se non è democratica che scuola (pubblica) è?
Questa prima ondata (felice e non pandemica) sfocia nella manifestazione del 18 febbraio «contro il vostro modello di scuola», «contro la scuola dei padroni» che vede sfilare in corteo centinaia di migliaia di studenti in più di quaranta piazze in tutta Italia, per dire ancora no a una scuola che insegna ai giovani che è normale lavorare gratis, senza diritti e sicurezza, ancora in nome di Lorenzo Parelli a cui si è tristemente aggiunto Giuseppe Lenoci, studente sedicenne, morto il 14 febbraio durante uno stage in un’azienda termoidraulica (la Termoservicegas) in provincia di Fermo, su un furgone dove non doveva essere. Gli studenti e le studentesse chiedono – e qui le parole sono quelle del movimento della Lupa di Roma – «l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro, il ritiro immediato di questa proposta di esame di maturità che non può cambiare a metà dell’anno, senza tenere conto della profonda crisi pedagogica e psicologica che stiamo vivendo» e sollecitano le dimissioni immediate del ministro Bianchi (un’economista, guarda il caso, a dirigere il ministero dell’istruzione).
Condivido le parole di Nicola Lagioia che scrive «quando ho visto le forze dell’ordine caricare gli studenti in tante città italiane, mi è subito stato chiaro dove fosse l’eversione e dove la tenuta della democrazia, dove l’improvvisazione e dove un ragionamento sul futuro, dove la violenza e dove un tentativo di interlocuzione. Sto con i ragazzi, mi scandalizzano gli adulti, lotto contro me stesso» e osserva che in un paese vecchio come l’Italia i giovani sono un bacino elettorale troppo piccolo e li si può ignorare «dopo essersi impiccati alla corda del proprio cinismo». Stiamo con i ragazzi e le ragazze, accanto ma senza protagonismi, accanto per dare voce e supporto se richiesto, accanto per vedere e valutare con i nostri occhi quello che accade. Poco prima della partenza della manifestazione torinese, un ragazzo urla la sua rabbia dal furgone che guida il corteo: «Ci dicono sempre che i giovani sono il futuro, ed è vero, ma noi siamo anche il presente, siamo qui, ora, facciamoci sentire». Questo è anche il loro tempo, questa è la loro scuola ed è giusto che se la riprendano. Finalmente