La diversificazione delle posizioni internamente al governo italiano sull’esclusione della Russia dalla piattaforma “Swift” sono imbarazzanti due volte: da un lato per aver diviso il “fronte diplomatico” europeo circa le sanzioni più dure da concretizzare in breve tempo in risposta alla guerra di Putin contro l’Ucraina; dall’altro per aver mostrato urbi et orbi che l’Italia ha una sua strutturale debolezza economica e finanziaria così evidente, così grave, da non potersi permettere di fare la voce grossa con il gigante russo. Nemmeno attraverso la schermatura del partenariato europeo.
Mentre in Parlamento Draghi riferiva di una piena condivisione della linea del G7 e della UE, mentre Zelensky lamentava ironicamente di ricordarsi di spostare l’ora della guerra per far posto all’ora della telefonata mai avuta con il Presidente del Consiglio nostro, mentre Di Maio si affannava a smentire l’acredine di Donald Tusk e a ridimensionare l’incidente diplomatico con Kiev, il ministro Franco, molto sinceramente, ammetteva che sì, l’Italia teme per le forniture di gas, per la loro trasformazione in energia elettrica e per i costi esorbitanti che ne deriverebbero proprio per quella economia italiana che traballa ogni secondo di più.
La sincerità è una nobilissima virtù, ma è fatta per i saggi, per coloro che vivono asceticamente e romanticamente la politica, non per chi siede al governo e deve mediare con l’ipocrisia necessaria a non spaventare troppo una popolazione fin troppo esasperata da due anni e mezzo di Covid, da un procedere a zig zag si chiusure e aperture e da una fine dello stato di emergenza che ora, a causa della guerra, sembra persino grottesco da pronunciare.
La fragilità della nostra economia, del nostro capitalismo si unisce ad una rappresentanza politica che, paradossalmente, nel suo essere rigidamente liberista finisce col diventare, in questa emergenza bellica, esclusivista e protezionista, mostrandosi diffidente verso quell’europeismo che ha tanto blandito, elogiato e magnificato fino ad oggi.
E’ ovvio che le reazioni da Bruxelles siano piccate e facciano dire ad alcuni che Germania, Ungheria e Italia «hanno perso l’onore» non schierandosi apertamente e subito con gli altri paesi dell’Unione per l’esclusione della Russia dalla piattaforma “Swift“. Se si trattasse di un condizionamento delle posizioni intere del governo da parte della porzione sovranista che lo sostiene, se ne potrebbe dedurre il peggio dal punto di vista meramente politico, consegnando alla Storia la fine del mito draghiano come risolutore di ogni complicazione e di ogni problema.
Invece si tratta di una impossibilità oggettiva che l’esecutivo ha nell’evitare di considerare le conseguenze che ne deriverebbero per una stabilità del capitale privato e dell’imprenditoria, qualora la Russia decidesse di rivalersi delle sanzioni aumentando a dismisura i costi di vendita di quel gas per cui l’Italia dipende da Mosca per un buon 60% del fabbisogno quotidiano nazionale. Da attento esperto di numeri, Draghi sa che si trova davanti ad una contraddizione che sembra irrisolvibile perché si muove su piani al contempo simili e differenti, lontani e vicini, staccati e intersecantisi.
Dal punto di vista politico deve, infatti, fronteggiare la sintesi di una politica europea che si va definendo con difficoltà, arrancando rispetto alla velocità con cui scorre il fronte della guerra in Ucraina; su un altro piano, invece, si trova a fare i conti dei risvolti che ne deriverebbero tanto in politica quanto in economia interna.
Nonostante le dichiarazioni formali di condivisione della linea espressa nelle grandi assise internazionali, e a differenza della Germania, che esprime timori sul blocco totale delle transazioni con la Russia ma ha un differente rapporto tra PIL e tenuta delle garanzie sociali per la propria popolazione, l’Italia è in una condizione di estrema precarietà sociale e deve ottemperare ad un impegno riguardante i finanziamenti del PNRR che potrebbe venire compromesso proprio dalla situazione in crescendo della guerra.
Se è vero che i contraccolpi diretti di quanto sta avvenendo in Ucraina non si sentirebbero nell’immediato, non è poi così lontano dal vero l’affermare che la crisi ad Est porterebbe l’Unione europea a fare i conti con le mille diversificazioni nazionali al suo interno, effetto di un “si salvi chi può” che ha un po’ sempre dominato la concezione liberista della curiosa aggregazione transnazionale nata fondamentalmente con Maastricht, per creare un polo capitalistico e imperialista autonomo rispetto a quello americano e a quelli in emersione dall’Asia moderna.
Il bilateralismo tra Europa ed America, tuttavia, ha impedito che la prima potesse pienamente diventare quello che si proponeva e ne ha fatto un gigante davvero dai piedi di argilla, dove l’unità si trova nella mera emergenza reciproca che si forma, di volta in volta, solo tra i paesi ricchi dell’Unione, a tutto discapito – come nell’emblematico e storico caso del debito ellenico – di quelle nazioni che viaggiano ad un ritmo produttivo minore, la cui ricchezza cresce molto poco e che, nonostante l’avanzare in positivo dei punti del PIL, rimane comunque legata alle sorti delle “locomotive” europee.
La guerra in Ucraina sta riaprendo tutta una serie di contraddizioni nell’Europa di Bruxelles e Francoforte da rendere quasi superfluo un conflitto armato nei territori della NATO, quelli che Stoltenberg (mai cognome fu più appropriato per chi pensa in questo modo…) vorrebbe difendere centimetro per centimetro. La moneta unica non ci sta preservando da rischi futuri, prodotti da un conflitto che si preannuncia di non breve durata, ma quanto meno ci mette al riparo dal dover affrontare da soli un mondo veramente molto più grande di noi che ci picchiamo d’essere la settima potenza economica mondiale.
Davanti alla minaccia di una guerra globale, la nostra posizione economica nel mondo impallidisce tanto quanto la nostra capacità militare che è inversamente proporzionale alle dichiarazioni muscolari tanto dei governi quanto degli alti comandi pronti a difendere la patria.
La nostra indipendenza politica si destreggia tra una dipendenza economica dall’Europa e una irrilevanza in politica estera sia nei confronti delle relazioni con il “fronte diplomatico” guidato da Macron e Scholz, sia nei rapporti che intratteniamo direttamente con Kiev e Mosca. Più la guerra durerà e maggiori saranno le possibilità di assistere ad un deperimento del ruolo del nostro governo nello scacchiere del Vecchio continente.
Il fallimento della politique politicienne draghiana, a ben vedere, rischia di non essere da meno della sfacciataggine con cui gli imprenditori italiani rivendicano un ruolo in questa occasione che gli si presenta per aprirsi nuovi mercati: ad iniziare da quello della fabbricazione e del commercio delle armi, passando per tanti e tanti altri settori di produzione che possono essere convertiti e adeguati al veloce susseguirsi degli eventi. Le opportunità (e gli opportunismi) per fare profitti nascono come funghi quando la tragedia della guerra innesca bisogni immediati a causa della mancanza di materie prime, di generi fondamentali, dei bisogni più elementari perché assolutamente vitali.
Il cinismo dei padroni almeno ha un ruolo in tutto questo. Disgustoso, ma ce l’ha. E’ nella natura del rapporto tra capitalismo e guerra che si forma quel ventre molle in cui si alimentano le speculazioni più basse e vergognose. Invece, la politica governativa finisce con il non avere nemmeno la scusa dell’appartenenza strutturalmente genetica con questo sistema perverso e omicida. La sua inedia e la sua insipienza sono proprio tutte sue e non attribuibili a nessuna altro fattore esterno.
La piccolezza di una classe dirigente si mostra molto più chiaramente quando le sue risposte incespicano nei se e nei ma, cercando l’appiglio diplomatico cui aggrapparsi per non affogare ulteriormente nel ridicolo.
MARCO SFERINI