La precisione chirurgica delle tecnologicissime bombe intelligenti, dei più sofisticati missili, dei migliori cannoni dei carri armati russi è soltanto una esibizione di potenza militare, uno sfoggio di superiorità bellica che tutti gli imperi di questo mondo (americano, cinese, russo…) fanno di volta in volta, quando un conflitto assume le proporzioni che intendevano dargli: quello della dimostrazione di una competitività criminale, omicida, assassina su vasta scala per rivendicare questa o quella porzione di mondo, per sottrarla alla sfera di influenza altrui.

Già ai tempi delle Guerre del Golfo si parlava di intelligenza degli ordigni militari, capaci di evitare i civili e scagliarsi soltanto su obiettivi militari. Il risultato furono decine di migliaia di innocenti letteralmente inceneriti dal fosforo bianco, da altri agenti chimici che sarebbero pure vietati dalle gloriose convenzioni internazionali sugli armamenti e su una sorta di oscena bon-ton da utilizzare in guerre che non somigliano nemmeno lontanamente a quelle cavalleresche del ‘500 e del ‘500.

I bambini iracheni del 1990-91 nel migliore dei casi avevano la belle abbrustolita ovunque, mentre nel peggiore quella loro pelle proprio non la possedevano più. Scarnificati, ridotti a brandelli, amputati di gambe, braccia, accecati dai bagliori e dai gas che riportavano alla mente le nostre eroiche italiche gesta in terra d’Africa nell’Abissinia di Hailé Selassié.

In Serbia e Bosnia non andò certo meglio: sui ponti di Belgrado morirono civili e militari insieme, mentre la Bosnia Erzegovina diventava il campo di battaglia interetnico per una guerra di espansione della NATO sempre più ad Est, a cominciare appunto dai Balcani. Le promesse fatte oralmente a Michail Gorbačëv erano già consegnate alla memoria storica. La fine della Guerra fredda aveva permesso, con la dissoluzione improvvisa dell’Unione Sovietica, la completa ridefinizione dei confini geopolitici statunitensi e, di conseguenza, la rivisitazione dei piani dell’Alleanza atlantica sul trampolino di lancio europeo.

Allora come oggi l’Europa è stata il terreno su cui ha poggiato il piede espansionista dell’imperialismo a stelle e strisce. Ed hanno ragione analisti di primo piano, già membri dei consessi di consulenti del governo americano sotto le presidenze di Bush padre, Obama, Bush junior e pure di Trump, nel ricordare che se è stato commesso un errore in politica estera, unitamente a quella militare, questo è stato proprio l’auspicio che la NATO penetrasse nell’ex area di egemonia sovietica sul Vecchio continente.

Ciò non giustifica nessun attacco criminale, nessuna guerra, ma indubbiamente solletica le mire altrettanto nazionaliste ed imperialiste di una Russia che non è riuscita a diventare “europea” e che del capitalismo ha assimilato i tratti peggiori (ammesso che il sistema del profitto e delle merci abbia delle caratteristiche positive per questa disgraziata umanità…): primo fra tutti la trasformazione autoritaria del potere nel nome della stabilità di un grande paese (anche geograficamente parlando) che aveva la necessità di rilanciarsi economicamente, quindi di dotarsi di una struttura del tutto adeguata ai tempi del multipolarismo globale.

Il martirio di Mariupol di queste ore, la morte dei bambini e la sofferenza delle madri incinte trasportate al sicuro oltre il grande cratere dove sono esplosi i missili sparati dall’esercito russo, tutto questo orrore è la conseguenza di freddo calcolo che tiene in equilibrio gli interessi degli oligarchi russi, quello politico di Putin e quello dei militari che supportano il regime del governo della Federazione.

Riesce davvero difficile accostare il cinismo dell’asse economico-politico degli imperi mondiali alla sofferenza indicibile della popolazione ucraina e, nello specifico, di quella dei 400.000 che sono ormai intrappolati in una città che rischia di diventare un grande massacro a cielo aperto: lo spettro di Grozny fa il parallelo col probabile futuro di Kiev e quello di Aleppo rischia la similitudine sempre più realistica con Mariupol. I crimini di guerra avvengono ben prima che le guerre si combattono: il riarmo è potenzialmente un crimine bellico; così pure l’aumento delle spese militari considerate deterrenti, rubricate alla voce apparentemente innocente della “difesa“.

Nessun centesimo messo a bilancio per aumentare il potenziale degli armamenti di un paese è un investimento per la pace, per la stabilità. Può sembrarlo in una prospettiva di lungo termine ma, inevitabilmente, a poco a poco che si sposta lo sguardo nell’oggi, nella stretta attualità delle schermaglie tra le nazioni che ambiscono a diventare potenze planetarie dopo essere state scalzate dal podio o provando a salirvi per la prima volta, gli investimenti in armi e ordigni bellici di qualunque tipo sono un cattivo affare per i popoli e solamente un buon affare per i magnati che ne commerciano e che fanno tutti gli affari possibile sulla futura morte di nuove vittime di altre guerre di cui fingeranno di stupirsi un po’ tutti i buoni “democratici” e nazionalisti moderni.

E’ toccato già scriverlo, perché è ricorrente l’imbroglio di fare del moralismo sulla guerra, di ascoltare continuamente condanne etiche e anatemi contro la stupidità umana e la crudeltà cui può arrivare: le ragioni per cui a Mariupol si muore, per cui dei bambini tracheotomizzati vengono portati a braccio dai volontari della Croce Rossa su improvvisate ambulanze per essere portati in altrettanto improvvisati ospedali, per cui le donne incinte hanno il volto con linee di sangue che solcano i visi terrorizzati, per cui altre donne cercano per strada, urlando a squarciagola, i figli smarriti (oppure già morti…), tutte le ragioni possibili e immaginabili a monte di questi nuovi genocidi non sono moralmente includibili nell’alibi della cattiveria umana.

Non basta dire che siamo esseri che sanno creare straordinarie meraviglie, emozionarsi in mille modi diversi, declamare poesie, dipingere e usare i suoni per dare vita a melodie celesti e che, allo stesso tempo, siamo altresì capaci dell’orrore della guerra e dello sterminio di massa.

Non basta dire che la violenza è insita nella natura umana. Bisogna specificare sempre che la violenza, di per sé stessa, non avrebbe un potenziale così devastante se non fosse il mezzo con cui si difendono interessi enormi, fortezze di capitali che sono la base su cui le potenze politiche e gli Stati reggono le loro sorti, perpetuano il loro maledetto futuro e lasciano i popoli nella necessaria illusione di vivere – tutto sommato – nel “migliore dei mondi possibili”.

La tragedia ucraina è figlia di una colpa che ha i colori tanto della bandiera russa quanto di quella americana, tanto di quelli giallo blu della nazione aggredita quanto di quelli dell’alleanza che la voleva includere tra le sue nuove terre di conquista. Nessuno è completamente innocente in questa guerra. Tanti sono assolutamente colpevoli: prima di tutto Putin, Lavrov, quella cerchia di capitalisti e magnati russi che ne permettono l’azione di governo e anche quei satrapi degli Stati asserviti a Mosca (dalla Bielorussia al Kazakistan).

Il pacifismo viene deriso come posizione inconcludente, come mera utopia, come invito alla diserzione, alla resa, all’abbandono della lotta contro la nuova tirannia russa in Europa. Sono delle specie di argomenti molto, troppo comodi: quando non si può ammettere di stare dalla parte omicidiaria della Storia, allora si accusano quelli che non vogliono ammazzare, imbracciare armi e puntarle contro un proprio simile, come dei vili, dei codardi, persino dei traditori.

Nessuno sa, in fin dei conti, come si comporterebbe se gli bruciassero la casa, gli ammazzassero moglie, figli, parenti, animali non umani che gli sono cari. Perché no… Ma, finché è possibile sostenere la resistenza alla guerra con azioni che evitino l’allargamento del conflitto, questo deve essere il nostro dovere. Sapendo che l’Ucraina è un pezzetto di quella scacchiera europea dove si stanno confrontando tutti gli attori del ridisegno della geopolitica mondiale: americani, russi, cinesi, turchi e israeliani.

Le considerazioni morali c’entrano molto poco con la politica dei compromessi, con una diplomazia falsata dai rapporti di forza in campo nella polveriera ucraina: perché non c’è nulla di morale in queste azioni. A morire, in questi primi tremendi quindici giorni di guerra, sono per il 90% dei casi i civili, per permettere ai presidenti e ai primi ministri di poter dire: fermiamo la barbarie, fermiamo le atrocità. Le loro. Ma per accorgersi di tutto questo bisogna, appunto, andare oltre il racconto della politica buona contro la politica cattiva, della buona volontà occidentale contro la cattiveria e la follia di Putin.

Questo non è un giallo dove il colpevole è uno soltanto. Qui i maggiordomi del capitale sono tanti e altrettanti sono dunque i responsabili del delitto.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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