Tra le domande frequenti sulla guerra e sul comportamento da tenersi nei confronti dell’Ucraina che resiste all’invasione putiniana, ce ‘è una volutamente retorica e tendenziosamente insidiosa: «I pacifisti sostengono che non bisogna mandare armi al popolo che resiste all’aggressione russa. Allora volete che gli ucraini si arrendano?». E siccome da retorica nasce retorica e da una provocazione ne viene immediatamente un’altra, i quesiti che si agganciano al precedente aumentano esponenzialmente nella pochezza antistorica di paragoni improponibili, cercando di stanare il movimento per la pace, ridicolizzandolo come ai tempi della lotta ghandiana in Sudafrica o in India.
«Siete sempre stati dalla parte della Resistenza partigiana, che riceveva armi dagli alleati, ed ora volete negare le armi al popolo ucraino che resiste contro l’aggressione militare di Mosca?». Si lascia intendere un doppiopesismo etico-politico, un distinguo tra la lezione della Storia e quella della stretta e contingente attualità e, quindi, si palesa l’accusa nell’arringa finale: «Qui c’è un aggredito e c’è un aggressore. Non si può rimanere equidistanti. Non si può lasciare al proprio destino la gente che muore difendendo la terra, le case, i figli. La loro lotta è anche la nostra. Difendendo l’Ucraina si difende l’Europa, quindi anche l’Italia».
Ineccepibile sul piano della logica meccanicistica di un semplificazionismo estremo dei fatti e sui fatti stessi. E’ ovvio che la guerra costringe ad essere pratici e non teorici, a tralasciare elucubrazioni che vengono tacciate di “divanismo“, di “salottierismo“.
Noi, pacifisti comodamente seduti al caldo delle nostre case, dovremmo sentirci un po’ come gli uomini e le donne cui si riferiva Primo Levi quando redarguiva gli inconsapevoli della tragedia immane dell’Olocausto in quella guerra che pure era arrivata un po’ ovunque nel globo e che, per l’appunto si chiamava “mondiale“. Lo scopo degli interventisti ad ogni costo è generare una sorta di senso di colpa in noi che non ci rassegniamo a considerare le armi come soluzione di un conflitto bellico.
Non è una posizione di comodo, una terzietà architettata per equidistanziarsi al punto tale da assumere quasi una connotazione neutralista, magari per fare finta che il conflitto non sia poi così grave e lo si possa risolvere a parole, mediante la sola azione diplomatica. Tutt’altro, tutto l’opposto.
Chi si oppone all’invio delle armi in Ucraina non lo fa perché vuole vedere massacrata la popolazione dai colpi di arma da fuoco dei russi, ma perché ritiene che già da troppo tempo gli Stati Uniti d’America e la NATO abbiano giocato una partita ben più grande di quella che ora vogliono far intendere mascherandola da aiuto umanitario ad una nazione invasa, che sta conoscendo la peggiore delle devastazioni.
Sì, gli ucraini hanno il diritto ed anche il dovere di difendersi. Si trovano però in una contesa tra USA-NATO da un lato e Russia dall’altro (e tralasciamo pietosamente l’insignificanza europea in questa guerra). La distinzione tra popolo ucraino e governo ucraino è molto importante. Così come sono importanti le repliche a parallelismi impropri, devianti e anche un tantino revisionistici tra ciò che è stato oltre settant’anni fa in Europa e ciò che vi sta avvenendo ora.
La Resistenza italiana era composita sul piano ideologico, culturale e sociale. La cosiddetta “resistenza ucraina” è riunita (per ora) sotto il fervore nazionalista di un leader che non fa mistero del proprio populismo e che non fa nemmeno mistero dei suoi rapporti con l’estrema destra che ha operato ai confini col Donbass (sappiamo tutti del battaglione Azov e delle organizzazioni neonaziste che rivendicano molte azioni criminali come la strage di Odessa del 2014).
Anche l’ANPI si è espresso in merito, trascinato in questa contesa storico-politica dentro la contesa ben più drammatica e vasta della guerra. Il suo presidente nazionale Pagliarulo ha dichiarato in risposta ad una presa di posizione di Luigi Manconi sull’invio della armi agli ucraini: «Mentre gli Alleati erano in guerra da anni col blocco nazifascista, e quindi con la Germania occupante, l’Italia non è in guerra con la Russia. Ciò non cambia di una virgola la legittimità e – aggiungo – la necessità della resistenza ucraina, ma rende questo paragone pericolosissimo perché l’invio di armi in Ucraina potrebbe essere letto come un atto di cobelligeranza».
Le considerazioni fatte da Pagliarulo non scambiano la storia con la politica, ma considerano il tutto organicamente e richiamano nell’immediatezza ad un discernimento tra “resistenze” soltanto sulla base dell’oggettiva differenza dei contesti che includono i rapporti di forza tra le nazioni, le relazioni interne all’Europa e il confronto tra le vecchie e nuove, emergenti potenze mondiali.
La tragedia bellica che sta desertificando le città ucraine, massacrando decine di migliaia di civili e che ha sciocchizzato l’intera Europa per la vicinanza del rombo dei cannoni alle principali capitali dei paesi dell’Unione, non è sottovalutata dalle ragioni del pacifismo che non è ingenuo, fine a sé stesso, posizione di comodo e tanto meno menefreghismo rispetto al contendere violento tra le parti. Se fino ad ora i canali diplomatici non hanno funzionato e non hanno prodotto risultati concreti per fermare gli scontri, per permettere ai civili di fuggire dalle città assediate e martoriate, è perché sono mancate le volontà politiche per poter aprire una breccia nella guerra.
E’ veramente imbarazzante la assoluta assenza di una posizione non comune, bensì unica dell’Unione Europea: una posizione di mediazione che sostenesse le ragioni del pieno diritto di Kiev di essere sovrana e indipendente rispetto alle mire egemoniche di Putin. Una posizione inesprimibile per i differenti approcci che i singoli Stati della UE hanno nei confronti del gigante russo e che, sostanzialmente, riguardano il piano economico e produttivo, importazioni di gas e materie prime, esportazioni di altre merci verso il mercato orientale.
Non si chiedeva nemmeno – qui si, davvero ingenuamente – che Bruxelles avesse come baricentro della trattativa ciò che invece sarebbe giusto esigere: da un lato il ritiro totale delle truppe russe dell’Ucraina, la considerazione della stessa su un piano di neutralità militare (anche se “solo” a scopo difensivo) e quindi, dall’altro lato, la richiesta a Volodymyr Zelens’kyj di abbandonare i sogni di adesione alla NATO.
Si è sperato che l’Unione Europea quanto meno facesse da intermediario tra Kiev e Mosca, tralasciando il lato atlantico, visto che la NATO è in Europa, ed è anche in quella Turchia di Erdogan che ha ospitato i, per ora, fallimentari colloqui tra Lavrov e Kuleba. Invece, nulla di tutto questo si è concretizzato e i canali di comunicazione con Putin sono diversi per tono e per provenienza. Quelli apparentemente rassegnati di Macron e quelli più ottimistici dei tedeschi: da Scholz fino al ritorno sulla scena di Gerhard Schröder che, pare, investito in questo ruolo di ambasciatore delle ragioni ucraine proprio dal governo di Kiev.
Intanto la guerra va avanti, assedia le città, minaccia nuovi centri abitati, arriva alle porte di Dnipro, risale il centro del paese e punta a ricongiungersi con i fronti aperti a nord e nord-est. E quindi, in tutto questo scenario di morte e di distruzione tu, pacifista, hai davvero il coraggio di sostenere che inviare le armi al popolo, permettergli di resistere più a lungo contro i russi sia sbagliato?
Sì, dobbiamo avere il coraggio di continuare a sostenere una posizione assolutamente impopolare, descritta molto facilmente come un controsenso: perché la guerra esige altra guerra, perché ad un fucile puntato contro non si risponde con il lancio di ghirlande di fiori. E quindi, nella logica del conflitto, non esiste altra misura risolutiva se non quella dell’opposizione armata, della lotta conseguente, dell’invito agli ucraini a resistere ad ogni costo.
Non è forse questa una posizione molto comoda, rilanciata dalle nostre calde case d’occidente verso le fredde strade di Mariupol, di Kiev, di Cherson, di Mykolaiv e di Charkiv dove il fronte è fatto di neve bagnata di sangue, dove si contano a migliaia i morti per le strade e, nonostante le immagini, qui, nella tranquillità (si fa per dire…) occidentale ci sia spazio anche per una nuova stagione del complottismo e del negazionismo degli attacchi russi verso gli ucraini (e viceversa…)?
Non si comprende appieno la guerra se si tenta di occultare il risvolto politico, gli interessi che legano i governi ai grandi poteri economici nella controversia globale, dimenticandoci (o fingendo di scordare) che la guerra non è un accidente astraibile dal contesto in cui esplode e che le ragioni per cui tutto questo accade non sono la follia di un presidente, la sua idiosincraisia col mondo extra-russo o una asocialità patologica sfociata nel progressivo esaurirsi della sua capacità di provare empatia verso gli altri.
Per questo dobbiamo sostenere la resistenza ucraina in ogni modo, tranne che con l’invio di armi, perché non lasciano spazio alla ripresa dell’esercizio diplomatico e danno come consegna al popolo di sacrificarsi per una causa che non è, in fondo, la difesa della loro nazione ma la determinazione di un nuovo ordine geopolitico in Europa che si gioca sulla pelle degli innocenti. Per sedersi al tavolo della pace, americani, europei e russi hanno bisogno di non scontrarsi direttamente, ma di fare in modo che a farlo per loro siano gli ucraini.
Farsi ammazzare nel nome delle mire espansioniste del capitalismo americano e del militarismo atlantico è ciò che oggi viene chiamato “resistenza” e che non somiglia nemmeno lontanamente a quella lotta che prima di tutto in Italia (ma anche in Francia, Jugoslavia, Grecia e in tanti altri paesi europei) divenne un movimento di liberazione tanto dal nazifascismo quanto dal governo che avrebbe preteso di riprendere il controllo del Paese una volta finita la guerra.
Alcune similitudini storiche sono necessarie per evitare la ripetizione di errori del passato. Ma i paragoni sono azzardati e trascinano in discussioni oziose e pedanti che fanno perdere di vista il dramma epocale che stanno subendo in Ucraina e che, di riflesso, ci coinvolge e ci deve coinvolgere tutte e tutti.