La guerra commerciale, dopo pandemia e conflitto in Ucraina. Suona come un insostenibile ritorno agli anni’80: alla guerra fredda, al militarismo, all’indifferenza climatica, con un retrogusto di autarchia. E perdono senso Wto, Banca Mondiale e Fmi come luoghi di governo dell’interdipendenza dei mercati.
Un insostenibile ritorno agli anni Ottanta: alla guerra fredda, al militarismo, all’indifferenza climatica, con un retrogusto di autarchia che è cosa ben diversa da quella rilocalizzazione produttiva e sovranità alimentare che i movimenti sociali raccomandano da anni ai nostri governi. In tutte le sedi delle politiche economiche e commerciali si chiarisce la volontà – a partire da Palazzo Chigi, passando per Bruxelles, fino agli uffici della Wto a Ginevra – di seppellire la lezione della pandemia come campanello d’allarme per il disequilibrio socio-sanitario-ambientale che il modello di sviluppo industrialista-estrattivista che abbiamo scelto ha provocato, mettendo a rischio la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Mentre si lucidano i muscoli e i moschetti, si innesta l’indietro tutta, e si torna a un’impostazione pre-thatcheriana della produzione – carbonifera, intensiva, inquinante, armata – senza concedersi, da un lato, alcuno spazio per valutare l’impatto multidimensionale di scelte tanto scellerate e delle possibili alternative. E dall’altro lato senza concedere alcuna possibilità a una vera trattativa di pace e a una profonda riprogrammazione post-traumatica dei nostri territori in direzione della rigenerazione delle risorse, della vita.
L’Organizzazione mondiale del commercio, in questo contesto, ha offerto un’ulteriore frontiera di conflitto. Nata nel 1995 per iniziativa di Bill Clinton dopo la caduta del muro di Berlino, nell’idea che la riduzione progressiva delle barriere commerciali avrebbe unito il mondo in un’interdipendenza vincolata da catene di produzione sempre più lunghe e in una divisione del lavoro sempre più complementare, la Wto, pur essendo l’unico spazio internazionale – che ha come membri sia la Russia, sia l’Ucraina, sia i reciproci alleati -, non è riuscita, allo scoppio del nuovo conflitto, a fornire lo spazio di negoziato necessario a evitare l’escalation bellica ed economica. Anzi: il Consiglio sulla proprietà intellettuale (Trips) convocato in corrispondenza dell’invasione russa dell’Ucraina, ha visto il delegato ucraino prendere la parola per ringraziare il Gruppo di coordinamento dei Paesi sviluppati di aver escluso la Federazione Russa dalle sue deliberazioni, invitando gli altri membri ad astenersi dal negoziare con la Federazione Russa per non rimanere indifferenti alla situazione attuale. “La Federazione Russa ha chiaramente abbandonato i principi e i valori di base che il GATT e la Wto hanno promosso per quasi 80 anni, dalla fine della Seconda Guerra mondiale – ha aggiunto l’ambasciatore delegato. L’Ucraina non vede come i membri possano condurre relazioni economiche con la Federazione Russa all’interno della Wto su una base normale nelle circostanze attuali”.
Gli interventi successivi, pur condannando l’invasione russa, non l’hanno portata alle estreme conseguenze indicate dall’Ucraina, ma la pioggia di sanzioni commerciali che ha fatto seguito a quell’incontro hanno, di fatto, esautorato l’organizzazione come spazio multilaterale di concertazione delle regole commerciali a livello globale. Dal vino agli istituti di ricerca, dagli istituti finanziari alle imprese di Stato, dalle aziende private ai singoli investitori: l’Unione europea ha, per prima, reagito con una pioggia di sanzioni contro l’ex partner commerciale, ricevendo da parte russa la minaccia del Cremlino del sequestro dei beni delle società che hanno lasciato il Paese, e del controllo temporaneo delle aziende con almeno il 25% di proprietà straniera.
La lista delle multinazionali che hanno abbandonato la Russia è imponente: da Apple a Nike, da Pixar a Disney, da Goldman Sachs Group e JPMorgan Chase & Co, e poi Toyota, Nissan, Honda, General Motors, Ford e Volvo, Visa, Mastercard e Paypal, Burger King e Mac Dinald, H&M e Ikea. “Stiamo lavorando ad una risposta rapida e ponderata alle sanzioni imposte dall’Occidente”, ha dichiarato il direttore del dipartimento per la Cooperazione economica del ministero degli Esteri di Mosca, Dmitry Birichevsky. Il pacchetto di contro-sanzioni russe a discapito dei Paesi occidentali e dei loro alleati contiene il divieto di esportazione di diverse apparecchiature e componenti per le telecomunicazioni, l’industria elettronica, il settore medico-sanitario, l’industria manifatturiera e in particolare quella automobilistica, con l’aggiunta del divieto di esportare cereali, grano, soia e mais, ma anche zucchero, più alcuni prodotti forestali.
Dopo l’ingresso della Russia nella Wto nel 2012, fortemente voluto dal presidente Putin, l’interscambio commerciale si è rafforzato prepotentemente al di fuori dall’area di influenza ex sovietica: se il principale partner commerciale russo è la Cina, che vanta un valore di interscambio pari a 112,4 miliardi di dollari, il secondo è la Germania, per 46,1 miliardi di dollari, seguita dai Paesi Bassi (37 miliardi), gli Stati Uniti (28.8 miliardi), Turchia (25,7 miliardi), Corea del Sud (24,4 miliardi), e poi l’Italia (23,7 miliardi).
Il nostro Paese, secondo il Centro Studi di Confindustria, deve fare i conti con l’export verso la Russia, che per alcune filiere industriali rappresenta una quota elevata del proprio fatturato: arredamento, legno, abbigliamento e prodotti in pelle, a cominciare dal distretto della scarpa nelle Marche. Solo per i beni colpiti dalle sanzioni parliamo di circa 320 milioni di euro di vendite (2021), pari al 4,2% dell’export italiano in Russia e allo 0,06% di quello verso il mondo. Oltre alla necessità di tutelare le imprese italiane presenti in Ucraina e lo stock degli investimenti diretti delle imprese italiane in Russia: si tratta di ben 442 sussidiarie italiane operanti, con quasi 35mila addetti e un fatturato annuale di 7,4 miliardi.
Dopo l’invasione, l’Ucraina ha interrotto le sue relazioni diplomatiche con la Russia e ha deciso di non applicare più gli accordi della Wto nelle sue relazioni con il suo invasore, in coerenza con i diritti di sicurezza nazionale. E’ la prima volta che succede tra due membri dell’organizzazione dopo l’istituzione della Wto. Anche gli Stati Uniti sono orientati a interrompere, con uno specifico provvedimento, le relazioni commerciali normali permanenti (PNTR) con la Russia. Il che equivale a negare il trattamento della nazione più favorita (MFN) ai prodotti esportati dalla Russia negli Stati Uniti, e incaricare l’ambasciatrice della rappresentante commerciale degli Stati Uniti (USTR), Katherine Tai, di chiedere la sospensione dell’adesione della Russia alla Wto e fermare la richiesta della Bielorussia di adesione alla Wto. Anche il Canada avrebbe deciso di negare lo status di PNTR alla Russia.
La 13esima riunione dei ministri al commercio dei Paesi membri slittata a metà giugno a causa della diffusione della variante Omicron, ammesso che si tenga, stante la incerta situazione attuale, dovrà fare i conti con un indebolimento del fronte dei Paesi in via di sviluppo che perdono, con l’isolamento della Russia, la seconda potenza alleata, dopo la Cina, ad aver sostenuto negli ultimi anni le proprie istanze di democratizzazione del processo decisionale e delle opportunità commerciali. I negoziati sugli obiettivi della ministeriale sono di fatto interrotti, tanto che la Svizzera, che ospita la Wto a Ginevra ed è anche presidente di turno del suo Consiglio generale (GC), finora non ha tenuto nessuna riunione sulla tanto promessa risposta della Wto alla pandemia, presumibilmente a causa delle pressioni dei Paesi sviluppati. Peraltro la stessa Svizzera ha forzato il proprio status di “neutralità” imponendo sanzioni economiche alla Russia, e non ha ancora fatto alcun cenno alla possibilità di consentire al ministro del commercio russo di partecipare alla 12esima ministeriale a Ginevra.
Ma sarebbe davvero così semplice escludere la Russia dai negoziati commerciali e dalla Wto, come è stato possibile per la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale? Ricordiamo che l’organizzazione, paralizzata da almeno un ventennio, aveva ripreso profilo con la pandemia promettendo di proporre soluzioni pratiche condivise per affrontare la grave crisi sanitaria ed economica che aveva aggravato, dopo il Covid, le condizioni già difficili della maggior parte dei suoi Paesi membri. Apparentemente, le riunioni in corso per piccoli gruppi tecnici che sono state sospese o rinviate a causa dell’opposizione dei Paesi sviluppati alla partecipazione della Russia. Di conseguenza, c’è stato poco o nessun impegno su tre obiettivi negoziali vitali per la riuscita della 12esima ministeriale incipiente: la risposta della Wto alla pandemia, una proposta di accordo sui sussidi alla pesca e l’agricoltura, inclusa una soluzione permanente per i programmi di stoccaggio pubblico di grano e altre materie prime agricole, cruciali per la sicurezza alimentare dei Paesi più fragili. Uno stallo “insostenibile”, a detta della maggior parte dei negoziatori, che pure, protetti dall’anonimato, non negano la propria preoccupazione.
Che cosa può succedere all’unico spazio multilaterale, sulla carta, in grado di dirimere controversie commerciali, e quindi di traghettare l’economia internazionale, dopo un auspicabile cessate-il-fuoco, oltre la fase delle contrapposte sanzioni? Gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero, nel frattempo, condividere e presentare al Consiglio generale una dichiarazione congiunta di condanna dell’attacco Russo chiedendone l’esclusione dalle consultazioni in corso. Una dichiarazione off topic, visto che il forum di Ginevra lavora soltanto sulla congruità e consistenza delle relazioni commerciali. Se pure si trovasse una chiave per presentarla, ma non si trovasse il consenso per sospendere o estromettere la Russia dai lavori della Wto, gli Stati Uniti e i loro alleati potrebbero provare a forzare il consenso chiedendo di votarla, come previsto dall’articolo IX.1 dell’Accordo di Marrakech, per ragioni di sicurezza. Scelta mai fatta prima, e che porterebbe l’organizzazione a una pratica della conta che, in fasi turbolente come quella attuale, la potrebbero condurre, in pratica, a chiudere i battenti. Il vecchio sogno di Trump, che potrebbe materializzarsi con le pressioni dell’amministrazione democratica.
La presidenza svizzera della ministeriale, per di più, è assai problematica per le questioni di sviluppo: la Svizzera è stata, in questi anni, tra i membri Wto più accanitamente contrari a concedere la deroga alla protezione della proprietà intellettuale (Trips waiver) per vaccini e presidi di contrasto al Covid-19. Lo stesso Paese si è opposto ad ogni livello dell’organizzazione – dai gruppi di lavoro alle posizioni ministeriali – a concedere ai Paesi più poveri la possibilità di sostenere pesca e agricoltura con misure di sicurezza alimentare, a partire dalla possibilità di gestione statale degli stock alimentari per calmierare i prezzi in casi di rialzo improvviso o scarsità, come quello attuale. I Paesi sviluppati, inoltre, sotto la pressione della pandemia, hanno infranto numerose regole dell’ortodossia commerciale – imponendo restrizioni alle esportazioni, sostenendo bilanci pubblici e privati con ingenti finanziamenti specifici, introducendo programmi di sostegno alla produzione e ai consumi -, regole che continuano a rimanere in vigore per i Paesi più poveri, i quali, per di più, non sono riusciti a mobilitare risorse straordinarie non avendone nemmeno per sostenere l’ordinario.
Per limitare in tempo i danni, anche economici, di un “tutti contro tutti”, c’è bisogno di provare a uscire dalle difficoltà presenti guardando in faccia i limiti strutturali delle istituzioni nazionali e sovraordinate nell’affrontare un conflitto di queste proporzioni, già ampiamente emersi nell’incapacità di mettere in campo strumenti per consentire a tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite di affrontare con pari opportunità la ripresa post-pandemica.
Importanti studiosi, ma anche l’amministratrice delegata del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, parlano da tempo di “una nuova Bretton Woods”, a quasi 80 anni dalla conferenza delle Nazioni Unite sull’economia e la finanza dopo le prime due guerre mondiali. Con l’obiettivo di sostenere i drammatici costi della depressione e della guerra, i leader mondiali a Bretton Woods provarono a immaginare un insieme di istituzioni multilaterali per costruire un’economia e una finanza al servizio della ripresa. I limiti strutturali di Banca Mondiale, Fondo monetario internazionale e Wto, creati per sostenerla, li abbiamo ormai così tanto chiari a livello politico, economico e tecnico, che siamo assolutamente in grado di non ripeterli. Disuguaglianza, indebitamento e investimenti regolati insufficienti sono diventati la nuova normalità di un panorama economico iper-globalizzato. Peggio ancora, le regole protette da queste organizzazioni e le lotte di potere al loro interno stanno minacciando la pace e la stabilità del nostro mondo altamente interconnesso. L’accelerazione bellicista che stiamo vivendo svela l’insufficienza culturale dell’attuale classe dirigente, vecchia e machista, a interpretare la fase storica in modo autenticamente trasformativo. Rivela, inoltre, una volta per tutte, l’insincerità con la quale ha assunto i pur insufficienti impegni di giustizia sociale e climatica contenuti nell’agenda 2030 delle Nazioni Unite e, a livello europeo, nella strategia del Green deal. La necessità di mettere, però, diritti, pari opportunità, giustizia, beni comuni e biodiversità al centro del nuovo sistema di risposte è, proprio per questo, inequivocabile e non rinviabile.
L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, pur con i suoi limiti, offre un “piano d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità” trasformativo per il 21° secolo, simile a quello sviluppato a Bretton Woods nel 1944. Ma i ministri del G20 riuniti per un anno in Italia, e per il 2022 in Indonesia, hanno perso l’opportunità di concordare un’agenda per una riforma più profonda, nascondendosi dietro le difficoltà della pandemia per rinviare gli impegni assunti al 2050.
E’ urgente rinnovare il patto sociale a livello multilaterale mettendo al centro un corretto e equo accesso ai beni pubblici globali per un pianeta in equilibrio, promuovendo regole condivise per portare equità e stabilità nel mercato, mitigando i rischi comuni e accelerando, a livello commerciale, una revisione coordinata delle attività produttive. Bisogna concentrare gli investimenti in attività economiche a basse emissioni di carbonio, eliminare gli incentivi per i settori che devono essere gradualmente eliminati e sostenere la trasformazione ecologica del sistema industriale, con politiche per la piena occupazione con un lavoro dignitoso e ben retribuito. Una sfida che i Paesi in via di sviluppo dovrebbero affrontare con regole e sussidi differenziati, in uno spazio politico adeguato. La lezione della pandemia che la guerra non fa che confermare