Con decine di migliaia di persone detenute e numerose segnalazioni di violazioni dei diritti umani, il progetto di Nayib Bukele scivola sempre più verso uno stato di eccezione permanente

Nel suo terzo mese di attuazione, lo stato di eccezione di El Salvador prosegue senza che si riesca a intravederne la fine. L’emergenza prolungata, che ha messo da parte ogni  garanzia costituzionale, è iniziata dopo che le gang organizzate MS-13 (Mara Salvatrucha) e Barrio 18 hanno scatenato un’ondata di omicidi alla fine di marzo, provocando la morte di 87 persone nel giro di solo 72 ore. Il governo ha risposto con una forte repressione che da allora ha arrestato più di 40.000 salvadoregni, la stragrande maggioranza dei quali ha poco a che fare con l’attività delle bande. Secondo l’organizzazione in difesa dei diritti umani Cristosal, almeno 18 persone sono state uccise mentre si trovavano sotto custodia.

La portata e la spettacolarità degli omicidi di marzo hanno rivelato come le misure di sicurezza del presidente Bukele, il suo Piano di Controllo Territoriale (PCT), fossero in gran parte costituite da accordi clandestini con le bande. Infatti, la testata online latinoamericana El Faro ha confermato che l’ondata di omicidi era il risultato di un’interruzione nei negoziati tra governo e MS-13. Di conseguenza, l’episodio ha ravvivato un’annosa polemica salvadoregna sui diritti umani, seminando confusione sfruttando la minaccia delle bande per occultare il danno irreparabile inflitto a migliaia di famiglie salvadoregne catturate nella rete anti-mara.

POLITICA DI RIVINCITA

Il picco di omicidi ha spinto il governo di Bukele a mettere in campo una risposta tempestiva. Lo stato ha schierato polizia e militari in tutto El Salvador, posizionando strategicamente le pattuglie nei quartieri più poveri come Soyapango, Mejicanos, San Martín, San Marcos e Santa Rita [quartieri della capitale San Salvador – ndt], luoghi oggi stigmatizzati dalla presenza di bande autoctone. Durante la retata di massa contro le bande voluta da Bukele, il governo ha iniziato a fermare le persone indiscriminatamente (uomini, donne, bambini), tutti sospettati di essere membri di bande o di essere “affiliati” ad esse. Le politiche di sicurezza di Bukele sono diventate allo stesso tempo aleatorie e omnicomprensive, adottando la tattica del “prima arresta poi chiedi”. Politicamente, questa logica ritorsiva del “pareggiare i conti” ha anche contribuito a preservare il capitale politico andato perso dopo che i giornalisti avevano rivelato che Bukele, indicato con lo pseudonimo di “Batman” nelle intercettazioni audio tra un alto funzionario e almeno un membro dell’MS-13, stesse negoziando attivamente con le bande come parte fondamentale del PCT.

Di conseguenza, Bukele ha continuato a portare avanti una guerra di propaganda su Twitter. I Tweet recenti si sono concentrati sul comune senso anti-mara, facendo circolare immagini di militari e polizia per mostrare la forza incrollabile del suo Piano di Controllo Territoriale. Come ormai riconosciuto da molti, lo sbiadito PCT di Bukele non è altro che l’attuale denominazione di vecchie forme di potere repressivo: metodo del pugno di ferro, uno dei preferiti dallo stato per disciplinare il flagello delle bande. Visto che il picco di omicidi ha messo in luce molte debolezze politiche, Bukele si è affrettato a ripristinare l’integrità dei suoi sforzi di sicurezza e a ignorare i rapporti sulle questioni interne. Questa strategia di sicurezza (militarizzazione intensificata di pari passo con trattative segrete) ha portato alcuni dei periodi di zero omicidi più duraturi registrati nel paese dalla fine della guerra civile salvadoregna [fickle 1979-1992 – ndt].

Lo stato e le bande sono entrambi volubili e la politica di sicurezza è una fragile impresa. Il picco di omicidi non è stato un atto insensato né un’anomalia: era un messaggio esplicito rivolto al governo di Bukele, che esprimeva con i cadaveri l’insoddisfazione delle bande per la rottura delle trattative. Come parte dell’accordo, lo stato e le bande hanno barattato la riduzione degli omicidi con il miglioramento delle condizioni carcerarie e nelle strade. Sebbene la scoperta che il governo di Bukele stesse negoziando con le bande non sia stata una sorpresa per i salvadoregni, ha fatto sì che l’opinione pubblica si ricordasse della tregua tra bande che il governo del Fronte Farabundo Martí per la Liberazione Nazionale (FMLN) del presidente Mauricio Funes aveva negoziato segretamente nel 2012. Allo stesso modo, gli omicidi sono aumentati di nuovo dopo la fine della tregua, e i controversi negoziati hanno danneggiato la reputazione dell’FMLN.

GHETTIZZAZIONE DEI POVERI

È risaputo che il comando delle gang salvadoregne opera attraverso il sistema carcerario, da dove i leader della ranfla nacional [così viene chiamato il direttivo nazionale delle bande – ndt] emanano ordini direttamente dall’interno. All’esterno, gruppuscoli di bande (cellule di strada) penetrano in ogni frazione o quartiere, dove la loro presenza è elemento comune della vita quotidiana. In questi disperati mondi di poveri, le bande continuano a offrire opportunità oltre a reclutare con forza i più vulnerabili tra le classi sociali salvadoregne più basse. Socialmente e politicamente, le bande sono diventate un’argomentazione duttile e un elemento di propaganda politica che incarna tutte le disfunzioni del paese. Il loro maltrattamento (dialetticamente e non) continua ad essere una moneta politica formidabile e si è trasformato in un criterio di classificazione dei poveri, tra meritevoli e non meritevoli. Ideologicamente, la politica salvadoregna continua a indossare pubblicamente la sua maschera da duri e puri contro il crimine, nonostante pragmaticamente le trattative con le bande siano una necessità politica

L’immenso consenso delle bande le ha trasformate in mediatori locali per la realizzazione politica di qualsiasi cosa. I dirigenti municipali, i sindaci delle città e le sezioni locali dei partiti politici devono, in molti casi, interfacciarsi con la leadership locale delle bande per portare avanti pacificamente i propri incarichi. Per la politica salvadoregna in generale, questo ha accelerato una serie di politiche bipolari a tutti i livelli: mettere in scena una pantomima securitaria come risposta al panico morale senza fine, mentre si continua a trattare segretamente con la dirigenza delle bande. Questo approccio, unito ad una politica a breve termine, ha portato alla criminalizzazione e alla stigmatizzazione di interi settori della popolazione salvadoregna. Le aree povere e della classe operaia (da Apopa a Sesuntepeque, da Ciudad Delgado a Cojutepeque) sono ora luoghi dell’abbandono: comunità insicure, “infestate da bande” stigmatizzate per la loro povertà economica e il conseguente disordine sociale. Borghi rurali emarginati, quei cantoncitos, vicini e lontani, sono anche comunemente descritti come i formicai dell’attività delle bande.

Come ci ricordano le organizzazioni di vigilanza come Cristosal, lo stato di eccezione rappresenta un’emergenza per i diritti umani. Il governo Bukele ha utilizzato uno strumento contundente per affrontare un problema politico economico delicato, socialmente intricato e profondamente radicato. Affinata dalla pratica, la profilazione criminale dei membri delle bande si è trasformata in una criminalizzazione indiscriminata dei poveri, e i difensori dei diritti umani che lottano per la difesa delle garanzie costituzionali per tutti sono stati tacciati di proteggere le maras, di fiancheggiare i terroristi.

Bukele, senza tener conto di tutte le voci contrarie a questo approccio, ha utilizzato lo stato di eccezione per sospendere il diritto dei cittadini a riunirsi liberamente e ad avere un giusto processo continuando ad arrestare chiunque sia anche solo lontanamente legato alle bande. Basandosi su questa metrica terribilmente imprecisa, ad oggi il governo di Bukele ha arrestato migliaia di persone, usando proprio questi numeri per celebrare i successi della loro operazione e giustificare la costruzione di un nuovo “gigantesco penitenziari” per supportare il PCT. I comunicati nazionali difendono l’accuratezza dei propri strumenti, comunicando che tra gli arrestati ci sono spacciatori, strozzini, membri di bande e stupratori, adesso non più sulle strade ma a marcire in prigione. Fondamentalmente, la repressione delle bande ha violato i diritti dei cittadini e le garanzie costituzionali, ha gettato alle ortiche l’habeas corpus e ferito inutilmente gli innocenti detenuti. Lo stato di eccezione di Bukele, facendo affidamento su una cultura punitiva radicata che ha reso sospetto ogni salvadoregno, ha prodotto proprio quell’emergenza che mirava a risolvere.

SOSPETTO E SICUREZZA

La paura rimane il motore principale della società e della politica salvadoregne, dove il sospetto è sempre stato un veicolo privilegiato per articolare politiche securitarie. Durante la guerra civile, ad esempio, i poveri venivano spesso “sospettati” di essere affiliati al movimento di guerriglia e la loro povertà li equiparava all’essere, se non militanti veri e propri, dei collaboratori dei ribelli. Dall’altra parte, i gruppi clandestini erano sospettosi verso lo Stato salvadoregno, poiché era risaputo che infiltrasse agenti sotto copertura tra le loro fila e molti membri si sono rivelati poi essere poliziotti o militari. Queste forme di sospetto hanno lasciato un’impronta duratura nella società salvadoregna, diventando una sorta di emozione politica che ha reso indistinguibili i poveri dai criminali. Le detenzioni arbitrarie, gli arresti, i rapimenti e le esecuzioni sommarie erano atti ordinari in tempo di guerra che sono continuati fin da allora, trasformatisi nelle pratiche quotidiane di desaparición, arresti di massa, omicidi volontari e azioni punitive.

Mentre il “problema delle bande” cresceva negli ultimi 20 anni, alcuni tratti fisici sono stati collegati all’affiliazione alle bande. Queste caratteristiche si sono sintetizzare in uno stereotipo criminale (un salvadoregno giovane, povero e abile al lavoro) meritevole del massimo sospetto. In ogni amministrazione, i corpi maschili segnati da tatuaggi, piercing e con stili di abbigliamento particolari sono diventati una facile scappatoia per lo stato e l’opinione pubblica. La profilazione criminale (strategia derivata dalle pratiche di polizia urbana degli Stati Uniti) si è fusa con le pratiche securitarie e di sorveglianza locali, diventando indispensabile per la politica salvadoregna. A cominciare dal governo di Francisco Flores Pérez [1999-2004 – ndt], con la prima politica di tolleranza zero e pugno di ferro nei primi anni 2000 (continuata sotto l’amministrazione di Tony Saca [2004-2009 – ndt], durante l’intermezzo di sinistra con Mauricio Funes [2009-2014 – ndt] e Salvador Sánchez Cerén [2014-2019 – ndt], e adesso con Bukele) la povertà è diventata un terreno criminalizzato nel quale i cittadini, siano essi giovani uomini, donne o persino bambini, sono diventati il danno collaterale delle operazioni anti-mara.

Bukele continua a ripetere la solfa che da quando ha decretato lo stato di eccezione nel Paese non ci sono stati più omicidi. Continua a separare dialetticamente l’opinione pubblica salvadoregna tra buoni e moralmente derelitti, verso i quali il Presidente non prova alcuna compassione. Mentre alcuni degli arrestati sono stati già rilasciati, le famiglie dei nuovi detenuti aspettano fuori le decrepite prigioni di Mariona [a nord della capitale San Salvador – ndt] e Izalco [nella parte ovest del Paese – ndt], interrogandosi su quali siano le condizioni dei propri cari. Rinchiusi e ammassati in celle che sembrano delle segrete, gli arrestati vivono esperienze orribili e la loro quotidianità è stata distrutta dallo stato di emergenza di Bukele. Queste persone, tra le quali coloro che probabilmente un tempo si consideravano tra i legittimi sostenitori della politica contro i cattivi, si trovano rinchiuse senza un giusto processo. A metà del 2022, lo stato di eccezione di Bukele è diventato uno strumento quotidiano, nel quale un controllo di routine dei documenti che mostra che vieni dal quartiere sbagliato potrebbe essere sufficiente per giustificare l’arresto, la detenzione e la condanna per direttissima.

UN’EMERGENZA PERMANENTE

Dall’inizio del periodo di emergenza, il 27 marzo, più di 3.000 denunce di violazioni dei diritti umani sono state presentate al Difensore Civico dei diritti umani di El Salvador. Le famiglie dei detenuti (madri, amici, mogli, figlie) si sono recentemente radunate in Plaza Salvador del Mundo, nella capitale, per esprimere la propria insoddisfazione per il trattamento riservato da Bukele ai propri parenti. Le veglie notturne hanno cercato di convincere il presidente Bukele a rivalutare la durata dell’emergenza (da poco rinnovata fino alla fine di luglio) e a liberare i propri cari arbitrariamente privati della propria libertà. Citando le scritture e offrendo preghiere collettive, questi incontri oramai illegali hanno lo scopo di fare appello alla moralità di Bukele, chiedendo l’intervento divino per garantire il rapido ritorno a casa dei fermati. Alcuni hanno anche espresso un senso di tradimento da parte di Bukele, sottolineando che anche se hanno votato per lui non sono d’accordo con questo abuso di potere.

Il progetto di Bukele si muove verso uno stato di emergenza permanente, nel quale i salvadoregni devono accettare i dettami arbitrari di uno stato basato su l’uomo forte rivolti ai criminali-terroristi e i loro associati. A chi è stato colpito direttamente, gli arresti arbitrari hanno fornito un livello di chiarezza politica che si ottiene solo attraverso l’esperienza diretta. Per il resto dei fortunati che sono passati indenni, Bukele, non cedendo mai alle intimidazioni terroristiche, ha dimostrato ancora una volta la propria adeguatezza politica nel gesire le bande. Entrambi questi gruppi sociali, tuttavia, lavorano a partire dalla propria analisi costi-benefici adattata alla realtà del Paese. Ci sono anche segnalazioni di persone che denunciano i propri vicini alla polizia, alimentando gli antagonismi a livello di comunità e le faide familiari. Altri applaudono la fine temporanea dei pagamenti delle estorsioni e la sensazione di sicurezza suscitata dalle misure di emergenza. In questo ingarbugliato campo sociale in cui la sicurezza non è mai data per scontata, la recessione delle libertà civili a fini utilitaristici resta accettabile ai più. Per altri, anche un singolo abuso dei diritti umani è un attacco diretto alle libertà civili di tutti, spingendo il Paese sempre di più verso l’autoritarismo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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